Dalle carceri italiane è evasa la salute

Disturbi psichiatrici, malattie infettive, suicidi: nonostante il dettato della Costituzione quello delle cure dietro le sbarre è un diritto troppo spesso tradito. Una situazione tragica che fa dire ai medici delle carceri: “Questo è il nostro terzo mondo”

C’è un lato notturno della vita, scriveva la fotografa Susan Sontag, che è la malattia. E c’è un lato notturno della cittadinanza all’interno della nostra società, che è la condizione carceraria. La somma di queste due zone d’ombra definisce un’area di emergenza tanto sottostimata quanto cruciale per la salute pubblica.

LA SITUAZIONE - Chi sono i detenuti e quali necessità hanno in tema di salute? E chi si deve occupare di loro se stanno male? In carcere ci sono oltre 2 milioni di persone in Europa, 66.685 in Italia, dei quali 2.857 donne e 23.789 stranieri (ottobre 2012), contro una capienza massima di 46.795 posti. Va detto che la tutela della salute della persona sottoposta a misure detentive è sancita dall’articolo 32 della Costituzione ("La Repubblica tutela il diritto alla salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti"). E’, cioè, un diritto inviolabile dell’individuo, al di qua o aldilà delle sbarre. Dal 2008 la sanità penitenziaria dipende dal Servizio Sanitario Nazionale, e quindi da Regioni e Asl. Fuori, ovvero sottoposti a misure alternative alla detenzione per motivi legati alla salute, ci sono 3.086 alcolisti e/o tossicodipendenti e 36 malati di Aids in affidamento in prova (su un totale di 9.775 persone), 40 malati di Aids in detenzione domiciliare (su un totale di 8.907).

MALATTIE – Un’indagine GfK-Eurisko condotta nel 2007 in 25 carceri italiane ha evidenziato che il 43 per cento dei detenuti che necessita di cure ha problemi psicologico-psichiatrici, il 28 patologie virali croniche, il 16 patologie osteoarticolari, il 15 problemi cardiovascolari, il 10 di metabolismo e dermatologici. Di 2 milioni di detenuti in Europa, almeno 400.000 persone soffrono di malattie psichiatriche significativo, perlopiù disturbi della personalità, in secondo luogo psicosi.

TOSSICODIPENDENZA - Se i dati sull’uso di sostanze stupefacenti sono estremamente vari da paese a paese, in tutta Europa sono superiori in carcere rispetto all’esterno. Delle persone incarcerate per reati connessi alla droga e non sottoposti a cure durante la detenzione, il 70-98% ricade entro un anno dalla scarcerazione.

INFEZIONI - Più di altri luoghi il carcere è un bacino di patologie infettive: accoglie persone a rischio elevato (tossicodipendenti – circa un quarto dei detenuti -, prostitute, stranieri provenienti da Paesi in cui alcune infezioni sono endemiche) e la vita in detenzione (sovraffollamento, condivisione di oggetti come rasoi, spazzolini, stoviglie, aghi, tossicodipendenza, tatuaggi e  piercing) favorisce la trasmissione di infezioni spesso non diagnosticate, molto spesso non trattate. Prima fra tutte, l’Epatite C, che in Italia colpisce oltre un terzo dei detenuti, poi l’Hiv (intorno al 7%). In tutta Europa la prevalenza di queste due infezioni in carcere è da 10 a 20 volte superiore a quella esterna.

EPATITE C - Secondo la già citata ricerca GfK-Eurisko, che ha coinvolto i medici penitenziari, in un caso su 5 la malattia non viene trattata, perché non ce n’è il tempo, il paziente se ne va o ha problemi concomitanti e appena il 26% dei detenuti-pazienti con epatite fa una terapia completa. Dopo la scarcerazione, di oltre la metà dei pazienti che rientrano nella collettività non si sa più niente. “Il carcere è la nostra Africa. È il nostro "terzo mondo"”  dissero i medici della SIMSPe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) commentando i dati. Quelli in prigione sono malati più giovani della media e dunque, sottolineano i medici, sarebbero curabili con maggiore facilità. “Un’occasione mancata”.

TUBERCOLOSI – Il “mal sottile” è una drammatica realtà nelle carceri, in Italia 20 volte più diffuso che all’esterno, spesso in forme resistenti ai farmaci e correlate all’Hiv. In Italia due detenuti su 10 sono positivi al test cutaneo alla tubercolina (la “puntura” che identifica le persone che sono entrate in contatto con il bacillo della malattia), 4 su 10 se si considerano solo gli stranieri (studio ''La Salute non conosce Confini'', condotto da SIMSPe con la collaborazione dell'Associazione Network Persone Sieropositive e della SIMIT).

LE MALATTIE EVADONO – Poco realistico pensare che le patologie infettive non varchino le mura delle prigioni. «Con molte malattie come l'HIV o l'epatite C in Europa la prevalenza nelle carceri è da 10 a 20 volte superiore a quella della società esterna» ha dichiarato Stefan Enggist, responsabile Salute e Carcere di OMS Europa. Il carcere dunque può essere un vettore di diffusione delle infezioni, ma aggiunge Enggist,  sarebbe  profondamente sbagliato e inutile identificare nel detenuto un “untore” della società.

CHE FARE - Per Enggist, sono 5 gli obiettivi necessari: il rispetto dei diritti umani fondamentali dei prigionieri; riservatezza e fiducia fra  detenuti e operatori sanitari; l’integrazione della politica sanitaria del carcere nella politica nazionale per la Salute; servizi per le tossicodipendenze e maggiore attenzione alla malattia mentale. Qualche esempio di  buone pratiche di riduzione del danno c’è. Secondo l’Oms, dal 2009 77 Paesi hanno avviato programmi contro scambio di aghi e siringhe in comunità. Si parla di oltre 60 carceri in Svizzera, Germania, Armenia, Lussemburgo, Spagna, Moldavia, Iran, Romania, Portogallo e il Kirghizistan. Ovunque introdotte, queste misure hanno contribuito a ridurre le infezioni di HIV e di epatite.

SUICIDIO, PRIMA CAUSA DI MORTE IN CARCERE – Dal 2000 a oggi sono 2.071 le morti avvenute nei penitenziari italiani, di cui 744 per suicidio (fonte: Dossier “Morire di carcere”, una ricostruzione accurata, sebbene non ufficiale, che contiene nomi, date, circostanze, per chi ha voglia di affacciarsi sulle storie di Monia, Ilie, Gino e gli altri).  L’Italia non è il Paese europeo con i numeri peggiori, in termini assoluti, ma è quello con lo scarto più impressionante fra i tassi di suicidio nella popolazione carceraria e quelli esterni, in un rapporto di 15 a 1, secondo i dati riportati dal ministero di Giustizia (nel 2011 l'Istituto Superiore di Studi Penitenziari ha dedicato al tema un numero speciale dei Quaderni ISSP). Particolarmente critico risulta l’impatto della carcerazione per i giovani detenuti alla “prima volta”, spesso per reati di poco conto, non di rado legati alla droga; l’attesa delle udienze e del giudizio; per i detenuti più “anziani”, invece, i momenti a rischio possono essere connessi con separazioni, problemi legali, conflitti interni al carcere.

PREVENIRE PER QUANTO E’ POSSIBILE - Si può fare qualcosa? Sì, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che punta sulla formazione e sulla prevenzione, ricordando che alla fine degli anni ’80 l’incidenza dei suicidi nei penitenziari statunitensi era simile a quella europea. Nel 1988 il Governo Usa istituì un Ufficio dedicato alla formazione del personale penitenziario. Dopo venticinque anni il tasso di suicidio intracarcerario risulta ridotto del 70%. Importante che il personale, per la maggior parte del tempo gli unici occhi e orecchie per il detenuto, riconosca i segnali di angoscia e disponga delle basilari nozioni di pronto soccorso.

Donatella Barus

09 Nov 2012