Carcere e salute, di Laura Baccaro

 

Introduzione

 

Premessa

 

Il diritto alla salute

 

 

La salute e la norma

 

 

La salute in carcere

 

 

Malattie simulate e atti di autolesionismo

 

 

Problematiche di salute psichica

 

 

Aree problematiche della tutela della salute

 

 

Conclusioni

 


Introduzione, di Ivano Spano, Università di Padova

 

Che la situazione delle carceri in Italia viva, da tempo, in uno stato oggettivo di significativa e drammatica precarietà, prossima a un punto di non ritorno, lo testimoniano il numero dei detenuti più del doppio di quelli ospitabili, con una forte presenza di soggetti in attesa di giudizio, il deterioramento delle condizioni di vita che finisce per aumentare esponenzialmente lo stato di bisogno, la diversificazione della popolazione carceraria con quote crescenti di popolazione di stranieri, e la presenza di soggetti tossicodipendenti, elementi che peggiorano, sul versante del trattamento, le dinamiche relazionali interne inducendo un irrigidimento delle misure di controllo.

L’equazione che prende corpo e che quando la vita in carcere continua a deteriorarsi trovano maggior spazio logiche e pratiche mafiose, crescono i rischi per la salute (già di per se alti), si diffondono episodi di autolesionismo, di violenza, i suicidi, sostanze psicoattive circolano facilmente e pratiche come il lavoro, istruzione e attività culturali diminuiscono di peso specifico, facendo perdere ulteriormente di legittimità sociale alla funzione del carcere.

Tutto questo mantiene viva e risottolinea la questione per cui nella forma della detenzione vive un contrasto particolarmente profondo e peculiare con i principi stessi dello "stato di diritto" laddove si determina un impedimento totale, comunque, una drastica limitazione della possibilità di estrinsecazione di una gamma ampia di possibilità connesse all’esistenza individuale.

Sotto questo profilo l’assunto secondo cui la reclusione dovrebbe comportare soltanto la privazione della libertà costituisce una affermazione fuorviante sia dal punto di vista teorico e, ancor più, pratico venendosi a perdere una sfera non determinabile e delimitabile di diritti personali (L. Eusebi).

Rispetto a questo rimane tuttora centrale la prospettiva avanzata da Cesare Beccaria per cui "Non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finche la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile, nelle date circostanze di una nazione, per prevenirlo".

L’obiettivo esplicito, di natura sia teorica che pratica, è di far si che l’intero ordinamento converga intorno alla possibilità concreta di minimizzare, ex ante, gli spazi disponibili per una commissione vantaggiosa di fatti illeciti.

Da quanto detto si possono evidenziare due quesiti essenziali:

In questa sede non si vuole entrare nel merito della risposta al secondo quesito anche se se ne sono evidenziate, in parte, le premesse, avendo, comunque, consapevolezza che i due quesiti non sono separabili se non per una questione euristica.

Resta, comunque, doveroso annunciare che, di fronte alla complessità della questione, la posizione che si auspica è quella che "apre la prospettiva del dissolversi del diritto penale, quantomeno come strumento afflittivo" (C. Mosconi).

È chiaro che, almeno, le dinamiche indotte di chiusura del carcere verso l’interno, tipiche del carcere di isolamento e di custodia, devono rompersi per permettere e ridar senso a quelle dinamiche di proiezione e di aggregazione verso l’esterno, di "connessione con il sociale", già delineate dalla legge di riforma carceraria.

Ciò, rimanda a una visione del trattamento non più inteso al reinserimento del recluso nella società, non più come articolazione del carcere verso la società, quanto come dilatazione della società in relazione alla costante compressione del carcere.

Trattamento, allora, come esperienza sociale aperta piuttosto che come rieducazione normalizzante.

L’idea risocializzativa, afferma Luciano Eusebi, costituisce, innanzitutto, l’unico strumento teorico finora elaborato per dare rilievo alla sfera dei diritti di chi subisce una condanna. La risocializzazione non è un fine alternativo agli altri scopi per cui sussiste l’ordinamento penale, quanto un criterio di articolazione dell’intervento punitivo. Non si punisce per risocializzare

quanto, se si punisce, si deve punire in modo risocializzante, L’orientamento risocializzativo, rispondendo a una esigenza di rispetto della dignità umana, riflette una precisa opzione per cui l’efficacia dell’ordinamento penale non risponde solo al criterio di esercizio del potere coercitivo dello Stato ma all’ambizione che il senso delle norme e della loro dimensione precettiva possa essere liberamente fatto proprio da tutti i cittadini, anche da parte di coloro che dette norme hanno infranto, Ciò significa far si che l’impatto con il sistema punitivo non si debba configurare mai come impedimento-sbarramento di ogni prospettiva esistenziale dell’individuo considerato come essere sociale, ma come occasione percorribile al fine del recupero di un rapporto non conflittuale con la società.

L’orientamento alla risocializzazione non implica una pena, un trattamento che terapeuticamente risocializzi, quanto che l’intervento punitivo comporti il minor possibile sacrificio dei diritti essenziali dell’individuo e, dall’altra, assuma evidenze significative sotto il profilo della produzione di valori di solidarietà sociale, di condivisione, di ricostituzione di legami sociali.

Tutto ciò allude alla rottura dell’impermeabilità ed extraterritorialità del carcere.

La sperimentazione di forme aperte di carcere contribuisce a ricondurre il diritto entro il suo alveo naturale, a rimettere in primo piano i soggetti, le loro storie e realtà, anziché le fattispecie penali, a privilegiare la qualità, ossia le emergenze di nuove caratteristiche del soggetto, rispetto alla quantità indifferenziata che omologa gli individui nell’unicità e irreversibilità della pena.

Solo la socializzazione di dinamiche istituzionali aperte ha come presupposto e promuove la valorizzazione di quelle libertà che sono in grado, a un tempo, di permettere trasformazioni individuali e divenire sociale, il libro "Carcere e salute" di Laura Baccaro sembra essere la testimonianza fedele delle riflessioni fin qui fatte.

È, innanzi tutto, un libro raro come sono rare le analisi e le ricerche sulla condizione carceraria, in generale, e sui diritti dei detenuti, in particolare. Quando usci, per i tipi di Einaudi, "Il carcere in Italia" di Giulio Salerno è come se si fosse aperto per la prima volta il carcere all’esterno, alla società, prima incrinatura di quel meccanismo segregativo magistralmente analizzato da Michel Foucault in "Sorvegliare e punire", "Carcere e salute", raccogliendo le espressioni più qualificate di una letteratura impegnata a "svelare", "rivelare" la condizione del soggetto carcerato, dà sistematicità e completezza alla riflessione sul "diritto alla salute" in carcere, concorrendo a far capire il drammatico paradosso tra negazione e limitazione della libertà e affermazione dei diritti umani elementari, a partire dalla promozione del benessere della persona.

Baccaro riferisce "È il dolore del se relazionale che con la reclusione viene amputato e sottoposto a torsione... il recluso attraverso i suoi sintomi dice: ‘Sono un essere umano, una presenza umana, e come tale vorrei essere considerato.

E, a ben vedere, quella catena di sintomi è la modalità creativa che il recluso, al momento, intravede: il suo modo di esternare la sofferenza, di comunicarla, Una cura estenuante, come una danza senza fine che il farmaco aumenta anziché lenire, Mai, come in questo caso, è più vero il paradosso secondo cui: la malattia è la cura", Il "principio di equivalenza delle cure" sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità", come inderogabile necessità di garantire al detenuto le stesse cure, mediche e psico-sociali, assicurate a tutti gli altri membri della comunità, non esaurisce il principio per cui "mai le ragioni della sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita", Il lavoro di Laura Baccaro dà ragione ad Amartya Sen quando distingue "l’equità della salute" dalla semplice "equità della cura" perché la prima non si riferisce alla semplice disponibilità di servizi sanitari, quanto alla possibilità che, anche grazie agli stessi, possa essere raggiunto, da parte dell’utente, un effettivo stato di salute rispondente ai suoi reali bisogni, La salute, quindi, come costruzione sociale, capacità del soggetto di perseguire la sua concezione di salute, di mantenere la propria capacità progettuale nelle scelte esistenziali, Ma, la salute in carcere non si costruisce e, cosi, nessuna capacità progettuale per il detenuto.

Non si ha visibilità se non raramente e con difficoltà. La malattia è, forse, l’unico evidenziatore che si iscrive sul soggetto, sul suo corpo e che può parlare il linguaggio dell’evidenza, anch’essa, però, non sempre colta e osservata. "I detenuti si sentono mutilati, nel senso che sono costretti all’immobilità, a subire la lentezza burocratica, una paralisi che limita l’azione personale".

Da qui, quel drammatico paradosso che, afferma Baccaro, vuole che le reazioni di molti detenuti si muovano lungo le direttrici imposte dalla sofferenza legale: da una parte una implosione nervosa (esaurimenti, insonnia, nevrastenia, autolesionismo…), dall’altra un’esplosione di rabbia, di aggressività, di ribellione.

Dal libro di Laura Baccaro si levano anche le voci di oltre 400 detenuti della Casa di Reclusione di Padova coinvolti in una ricerca sulle condizioni di salute dai detenuti redattori della Rivista "Ristretti Orizzonti" che da 4 anni si pubblica bimestralmente all’interno della Casa di reclusione stessa.

I dati sono puntuali, sconcertanti, agghiaccianti. Sembrano inverosimili tanto sono veri. Sono evidenze di ferite, di bisogni elementari quasi sempre disattesi, di esigenze di visibilità, di maggior visibilità. Qui, il diritto all’espressione e alla realizzazione della propria umanità sembrano annichiliti nella oggettivazione dei corpi, degli affetti, dei vissuti, dei sentimenti che si agitano disperatamente per uscire da quella insignificanza entro cui l’istituzione li confina. Qui, della reificazione si celebra l’aspetto più profondo, più drammatico che fece dire a Marx "ogni reificazione è sempre un dimenticare".

Ancora una volta è il soggetto umano, quello più sofferente, la sua storia, la sua realtà a essere dimenticate, sacrificate a quegli stessi valori violati per cui la società ha inflitto la pena e che presume siano anche il prezzo del riscatto della sua libertà.

 

 

Premessa

 

Sembra paradossale argomentare del diritto alla salute poiché dovrebbe essere ovvio che è un diritto naturale dell’uomo, in altre parole un diritto dell’essere umano in quanto tale, ma la condizione particolare dello stato di detenzione è tale che il detenuto si trasforma, a volte, in un uomo "diverso" con "diversi diritti", talvolta contrastanti il principio universale secondo il quale l’uomo ha diritti propri perché essere umano, Gadamer scrive "Sappiamo approssimativamente in cosa consistono le malattie […] La salute, invece, si sottrae curiosamente a tutto ciò, non può essere esaminata, in quanto la sua essenza consiste proprio nel celarsi. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazione, anzi, non si è quasi mai consapevoli di essere sani […] implica la sorprendente possibilità di essere dimentichi di se [...] Consideriamo quindi la salute come un’armonia, come la giusta misura, cosi come la vedevano anche i Greci".

Anche Reale definisce la salute come "la giusta proporzione, quell’armonia naturale, quell’intrinseco accordo dell’organismo con se stesso e con ciò che gli sta al di fuori".

Dicevano gli antichi che quando un uomo diventa prigioniero Zeus gli toglie metà dell’anima! Ovvero per tenere qualcuno sottomesso è indispensabile annullare la sua indipendenza interiore. Il problema è quindi questo: cosa dobbiamo togliere ai detenuti per raggiungere, curiosamente, quel famoso stato di benessere chiamato salute? E se togliamo qualcosa come si fa poi a realizzare un equilibrio psico-fisico? Con quale parte dell’uomo "rimasto"? E chi è il soggetto che ho di fronte ora? Posso ancora parlare di "salute" oppure devo semplicemente di "manutenzione di uno stato di sanità meccanico"?

Ma se consideriamo lo stato di salute come un equilibrio soggettivo dobbiamo assolutamente fare i conti sia con il soggetto sia con l’ambiente nel quale si esplicita questo modo di essere e con l’attore da noi considerato che vive in carcere. Il termine "ambiente" non è più un termine adeguato se vogliamo collegarlo al concetto di salute come descritto. Dovremmo, con Pisapia, parlare più correttamente di "contesto" intendendo "non solo l’ambiente fisico nel quale si sviluppano azioni ed interazioni, ma lo scenario che i soggetti contribuiscono a costruire nel momento in cui sono impegnati in processi interattivi. [...] il contesto si crea quando interessa cogliere la connessione, e quindi la compatibilità, con altre azioni che si svolgono nello stesso ambiente". Il contesto regolato re nel nostro caso è quindi quello dell’istituzione "totale", con l’esigenza di sicurezza e con la necessità che il detenuto sconti la pena all’interno dell’istituzione-carcere stessa. Ecco che l’equilibrio fra le parti, la giusta misura, l’apporto di tutte le persone che vi lavorano crea la premessa indispensabile per l’esercizio del diritto alla salute.

Argomentare di salute è quindi cimentarsi per costruire un equilibrio dialettico fra il soggetto e l’ambiente, cioè fra le varie istanze istituzionali, è creare un dialogo circolare, non è solamente la cura del momento e del bisogno. In concreto parlare di salute è considerare il soggetto come "persona" inserita in un "contesto" nel quale deve avere la possibilità di esplicare il suo diritto.

In carcere si assiste, inoltre, al "paradosso della custodia e della cura". Da tempo sappiamo che il carcere rappresenta la zona più buia dell’apparato di giustizia, "il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo può funzionare in piena luce come terapeutica", De Risio, affrontando il problema della doppia pericolosità del detenuto-malato, utilizza la metafora della separazione, che "mette in risalto la modificazione dei rapporti tra individui in presenza di uno stato patologico, Il carcere è il luogo della separazione, è una scatola di pietra destinata a rendere visibile il confine fra il giusto e il deviante, […] È qui che trovano alloggio coatto l’ombra junghiana e il Dr. Jekyll e Mr. Hide, innocenti prodotti di nuove separazioni della mente e del corpo. Tali categorizzazioni sono presenti nell’individuo singolo, [...] e concorrono alla definizione della rappresentazione sociale della malattia stessa e del malato".

"È il dolore del se relazionale che con la reclusione viene amputato e sottoposto a torsione [...] il recluso, attraverso i suoi sintomi dice: "Sono un essere umano, una presenza umana, e come tale vorrei essere considerato!" [...] E, a ben vedere, quella stessa catena di sintomi è la modalità curativa che il recluso, al momento intravede: il suo modo di esternare la sofferenza, di comunicarla. Una cura estenuante, come una danza senza fine che il farmaco aumenta anziché lenire. Mai, come in questo caso, è più vero il paradosso secondo cui: la malattia è la cura".

E quindi un dilemma curioso sorge: è mai possibile che un carcerato venga custodito in modo tale che la sua salute psicofisica ne sia favorita?

Abbiamo visto come l’affermazione del diritto alla salute in carcere passa attraverso uno snodo costituito dalla triade: curapena-diritti. Parlare di diritti del recluso significa sostenere che la dignità è un bene che l’umanità conserva in qualunque condizione esistenziale e, come tale, non è sacrificabile da prevalenti esigenze di sicurezza.

Si potrebbe riflettere che "Quando a corpi cosi mal costituiti si aggiungono cattivi governi delle Città, e in queste Città si fanno cattivi discorsi e in privato e in pubblico, e inoltre dai giovani non vengono apprese in alcun modo dottrine che portino rimedio a questi mali, allora, in questo modo, tutti noi che siamo cattivi, diventiamo cattivi per due cause del tutto involontarie".

 

 

Il diritto alla salute

 

Diritti umani e salute

 

La nozione di salute è polisemica e, forse per questo, è sempre stata manipolata sia nei vari momenti storici sia negli ordinamenti degli stati, differenziandosi al variare delle finalità politiche, tanto che il concetto di salute si è trasformato da "bene" individuale (necessità del singolo di essere curato) a "bene" collettivo (interesse della comunità ad avere individui sani), con un relativo adattamento dell’atteggiamento delle Istituzioni verso la questione sanitaria. Parallelamente anche il ruolo dello Stato è cambiato, passando da un ruolo meramente assistenzialistico a gestore esclusivo della sanità, con precisi doveri di intervento.

La Conferenza Internazionale della Sanità (New York, 1946) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definiscono la salute come "uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli: essi per farvi parte devono prendere le misure sanitarie e sociali appropriate." Da questa definizione si delinea come compito dello Stato la prevenzione e la limitazione delle situazioni di non-benessere, che possono impedire al soggetto una vita dignitosa. Il diritto alla salute rappresenta, quindi, uno dei diritti fondamentali della persona, diritto che ne riconosce la dignità, che deve essere salvaguardato anche attraverso l’azione dei pubblici poteri. Competenza dello Stato sociale è garantire a tutti l’accesso ai diritti fondamentali, mettere nelle condizioni tutti di poterne fruire in eguale misura e tutelare i soggetti deboli e marginali.

L’OMS con l’emanazione delle direttive note come "Principio di equivalenza delle cure" sancisce come inderogabile la necessità di garantire al detenuto le stesse cure, mediche e psico-sociali, che sono assicurate a tutti gli altri membri della comunità, la garanzia dell’equità della salute per tutti i cittadini è il fine e l’obiettivo che devono perseguire i servizi sanitari nazionali ad impronta solidaristica. Amartya Sen distingue "l’equità della salute" dalla semplice "equità delle cure", perché la prima non è la semplice disponibilità di servizi sanitari, ma è la reale possibilità di utilizzo degli stessi per raggiungere un effettivo stato di salute da parte dell’utente, in base ai suoi bisogni.

L’esercizio concreto di questo diritto comporta l’elaborazione di paradigmi etici ispirati ad una visione della giustizia personale e sociale nello stesso tempo, cioè deve rispettare le esigenze dei singoli e della collettività.

Il principio di giustizia si traduce quindi nell’adozione di due criteri correlati:

 

Se si considera il diritto alla salute come un diritto alla persona ne conseguono alcuni principi che possiamo cosi definire:

 

Ma l’applicazione di questi principi non è mai automatica giacche si compongono in modo variegato fra di loro creando, a volte, situazioni apparentemente contraddittorie e conflittuali.

Tra i principali diritti riconosciuti alla persona malata ricordiamo come fondamentali: il diritto alla vita, diritto alla privacy, il diritto a non subire discriminazioni, il diritto ad essere adeguatamente informati, il diritto ad esprimere il proprio consenso informato.

Ma il diritto alla tutela della salute deve essere considerato come un diritto sociale del cittadino, con radici nel principio di solidarietà, che implica il rifiuto della separatezza fra le persone e il riconoscimento della necessaria interrelazione tra i diversi progetti di vita. Da questo discende l’affermazione sia dell’uguaglianza della persona nelle differenti forme della sua esistenza sia dell’ingiustizia nel trattare le persone in maniera diversa. La giustizia esige il superamento di ogni forma di discriminazione ed è necessaria per ristabilire l’uguaglianza negli interessi quando esiste fra loro sperequazione. Ciò significa che l’assegnazione delle risorse pubbliche e degli strumenti di politica pubblica nel campo della salute deve attuarsi in modo equo, senza penalizzare ingiustamente singoli soggetti o diverse categorie sociali.

Quindi la salute è in relazione alla reale capacità del soggetto di perseguire la "sua concezione di salute", di mantenere la propria capacità progettuale nelle scelte esistenziali e la pari capacità e/o possibilità di fruizione dei beni sanitari.

 

Le istituzioni per la salvaguardia del diritto alla salute

 

Dostoevsky sosteneva che "la qualità della società si misura dalla qualità delle sue prigioni", ma ancora nel 1987 le Regole minime europee raccomandano all’art. 1 che "la privazione della libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e morali che salvaguardino il rispetto della dignità umana e in conformità con questa regola"; inoltre all’art. 3 chiariscono che "la finalità del trattamento dei detenuti deve essere quello di salvaguardare la salute e la dignità".

Il Consiglio d’Europa nel documento "Regole penitenziarie europee", sopra citato, nel preambolo prospetta una costante evoluzione di tali regole, impegnandosi a "definire criteri di base realistici, che permettano alle amministrazioni penitenziarie di giudicare i risultati ottenuti e di misurare i progressi in funzione di più elevati standard qualitativi".

Ricordiamo le maggiori convenzioni internazionali: Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali Ris. ONU 30 agosto 1955: Regole minime per il trattamento dei detenuti, l. 25 ottobre 1977, n. 881: Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York, 16 dicembre 1966).

Inoltre l. 3 novembre 1988, n. 488: Ratifica ed esecuzione della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (New York, 10 dicembre 1984).

Con la l. 2 gennaio 1989, n. 7: Ratifica ed esecuzione della convenzione europea per la prevenzione della tortura o delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Strasburgo, 26 novembre 1987), è istituito il Comitato europeo per la prevenzione della tortura o delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Anche un materia di misure alternative il Consiglio d’Europa ha prodotto la raccomandazione n. R. (92) 16 del Comitato dei Ministri, denominata: Regole europee sulle sanzioni e misure alternative alla detenzione, molto importante in quanto, nelle premesse, valuta la positività delle misure alternative poiché "le stesse evitano gli effetti negativi della carcerazione".

Per quanto riguarda la situazione europea, è possibile fare riferimento al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, (Raccomandazione n. R (87) 25 del 12.02.1897 e n. R (89) 14 del 24.10.1989) e all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (Raccomandazione n. 1080/88 del 30.06.1988 e n. 1116/89 del 29. 09. 1989).

Ricordiamo le "Linee europee su HIV/AIDS ed epatite in carcere" che si orientano alla prevenzione, e la "Carta di Hodenburg" del 1998, nota come "Raccomandazioni europee su carcere e tossicodipendenza" che si esprime su prevenzione e riduzione del danno. In Italia il Ministero della Sanità ha stilato le "Linee guida sulla riduzione del danno" prendendo atto della direttiva del!’OMS nota come "Principio di equivalenza delle cure".

Si ricorda che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha istituito con risoluzione (99) 50 (7 maggio 1999) un Commissario Europeo per i diritti umani, con il mandato di promuovere l’educazione, la consapevolezza e il rispetto dei diritti umani nei paesi del Consiglio d’Europa. In Italia esistono due Commissioni:

L’attività del Comitato consiste nella preparazione di rapporti periodici sulle misure adottate a livello nazionale in applicazione alle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia. Questi rapporti sono presentati e discussi a livello internazionale. I contenuti di questi rapporti e le relazioni fatte ai vari ministeri di riferimento sono sconosciuti all’opinione pubblica.

Esistono inoltre commissioni e strutture di settore con funzioni connesse alla tutela e promozione dei diritti umani, ma nulla di specifico per la tutela del diritto alla salute in ambito penitenziario.

 

Principi costituzionali della tutela della salute

 

La Costituzione con gli artt. 2, 3 e 32, tutela l’individuo nel suo bisogno di personalità e socialità. Nello specifico:

 

Per Chieffi per lungo tempo l’art. 32 della Costituzione è stato considerato solo nell’aspetto "pubblicistico" della salute, cioè come mero interesse della collettività, comprimendo la prospettiva individualistica, pur esplicitamente sancita dal dettato costituzionale. A tal fine ricorda che la Corte Costituzionale nella sentenza 88 del 1979 ha ribadito che la salute è soprattutto "un diritto individuale fondamentale, primario ed assoluto, da inquadrare tra quelle posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione"6. Per l’autore il principale cambiamento riguarda quindi il considerare la salute "l’oggetto di un diritto inviolabile dell’uomo da inserire tra quelli garantiti dall’art. 2".

Secondo la Corte Costituzionale l’esercizio del diritto alla salute, è anche il diritto alla salute della persona detenuta8, in quanto l’ambito penitenziario è una condizione ad alto rischio di salute. Il detenuto conserva la titolarità e la facoltà di esercitare tutti i diritti inviolabili dell’uomo, in base agli articoli 2,3 e 13 della Costituzione.

Per quanto riguarda i trattamenti obbligatori, ricordiamo che per l’art. 32 della Costituzione solo la legge può stabilire che determinati trattamenti siano obbligatori, anche se in nessun caso questi possono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. La riserva di legge riguarda anche i modi operativi, le forme di garanzia (durata, controllo di esecutività, tutela giurisdizionale: art. 33 e segg. l. 833\ 78), sempre nei limiti del rispetto della persona umana. Per altro verso l’art. 13 della Costituzione stabilisce che la libertà personale è inviolabile, e che non è ammessa alcuna sua forma di restrizione, se non per atto motivato dall’autorità Giudiziaria nei soli casi previsti dalla legge. Ma si tratta di limitazioni della libertà stabilite per ragioni di sicurezza pubblica e di giustizia in conformità a quanto previsto dall’art. 5 della Convenzione per la salvaguardia di Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.

Maisto, riflettendo sulla persona, la pena e la cultura, scrive "Ritengo che la prima parte della Costituzione non vada modificata, ma attuata. Rimangono validi il principio di solidarietà sociale all’art. 2, del diritto alla salute all’art. 32, che devono essere giustamente bilanciati con l’essenzialità della repressione penale ai sensi degli artt. 13 e 27. L’art. 27 prevede, in caso di accertata responsabilità, l’inflizione della pena. Ma non si parla di pena carceraria. Ovvero il carcere non è costituzionalizzato".

 

I diritti del detenuto nell’ambito della tutela della salute

 

La separatezza dell’universo carcerario e la necessità di una giusta pena non possono comportare per la popolazione carceraria la perdita della facoltà di esercizio dei propri diritti o il semplice mantenimento della loro titolarità senza la salvaguardia delle necessarie capacità individuali a perseguirlo.

Il diritto alla salute, anche se sancito dalla Costituzione, può, comunque, incontrare limiti per quanto riguarda l’organizzazione dei servizi sanitari e per le esigenze di tutela di altri interessi legati allo stato di detenzione, per es. le esigenze di sicurezza, che possono diventare primarie rispetto al diritto di tutela della salute.

Per Segio nell’ambito penitenziario "trattamenti e terapie sono incompatibili con la coercizione che è ammessa solo per mantenere l’ordine, la disciplina e la sicurezza. In definitiva il diritto garantisce l’autonomia della persona anche rispetto ad interventi diretti esclusivamente, secondo la valutazione degli operatori socio-sanitari, al suo benessere. La peculiarità della situazione è tale che il detenuto rispetto al libero cittadino è limitato in quanto per lui esiste:

Per il detenuto invece è "obbligatorio" rivolgersi alle cure dei medici penitenziari. Se ha possibilità economiche la legge offre possibilità alternative, Queste limitazioni sono motivate da ragioni di sicurezza che, se pur "ragionevoli", limitano di molto la tutela, La Corte costituzionale ha espresso un concetto di "diritto alla salute" inteso come una pluralità di situazioni soggettive: il diritto all’integrità psico-fisica; il diritto alla salubrità dell’ambiente; il diritto degli indigenti alle cure gratuite; il diritto all’informazione sul proprio stato di salute e sui trattamenti che il medico vuole effettuare; il diritto alla partecipazione; il diritto di accesso alle strutture; il diritto del malato di comunicare con i propri congiunti1B, Inoltre il cittadino-utente ha il diritto a prestare il suo consenso informato agli accertamenti e trattamenti sanitari propostigli.

Il diritto alla salute del detenuto può essere limitato nell’utilizzo delle risorse del Sistema Sanitario Nazionale (S.S.N.) per quanto concerne l’accesso ai servizi, ai trattamenti, all’informazione, alla partecipazione, alla salubrità dell’ambiente.

Tutto questo non trova giustificazione nella "sicurezza". Ma l’ordinamento penitenziario si deve adeguare all’art. 27 della Costituzione che testualmente recita: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Inoltre il trattamento penitenziario "deve essere conforme ad umanità" ed inoltre "assicurare il rispetto della dignità della persona". Conseguentemente la garanzia della tutela della salute psico-fisica e sociale diventa basilare per qualsiasi attività di recupero e reinserimento sociale delle persone in stato di detenzione.

Quindi la pena deve essere attenta ai bisogni umani del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale, e fra i bisogni "umani" primari necessariamente deve essere contemplata la tutela del diritto alla salute. Il "trattamento" potrà essere positivo solo se s’inserisce in uno stato di benessere psico-fisico. L’assistenza sanitaria del detenuto, in tal senso, si pone come attività strumentale e si qualifica rispetto alla funzione di trattamento e di sicurezza. L’esecuzione della pena, vista nei suoi caratteri sanzionatori e disciplinari, passa in secondo piano rispetto la malattia. La disciplina sui ricoveri, sull’incompatibilità e sull’applicazione di misure verso il recluso-malato si deve muovere in tale direzione.

 

Il diritto alla salute e AIDS

 

Il dilagare del fenomeno AIDS negli istituti penitenziari ha fatto emergere due esigenze fondamentali di tutela: il diritto alla salute del detenuto da una parte e il rispetto delle esigenze cautelari, di difesa e prevenzione sociale dall’altra, Si sottolinea come per salute intendiamo non solo la condizione della persona affetta da AIDS ma anche la tutela degli altri detenuti che devono convivere forzatamente con questa patologia.

L’O.M.S. e il Consiglio d’Europa hanno emanato raccomandazioni e direttive per la tutela dei diritti individuali stabilendo principi generali per l’esecuzione della pena con l’intento di armonizzare le politiche d’intervento dei singoli stati, ma, di fatto, è lasciata alla discrezionalità dei legislatori nazionali la possibilità di recepirle e applicarle al rapporto punitivo di tipo carcerario.

Con la Raccomandazione n. 1080, relativa ad una "politica sanitaria coordinata per prevenire la diffusione dell’AIDS nelle prigioni", i governi erano invitati anche a adottare politiche di riduzione del danno, autorizzando la distribuzione di preservativi e, in casi estremi, di siringhe ai detenuti tossicodipendenti.

Nella stessa direzione era anche la Raccomandazione R (89) 14 del 24 ottobre 1989. Il Consiglio d’Europa nella Raccomandazione R (93) 6 del 18 ottobre 1993 per il trattamento dell’infezione da HIV in ambiente penitenziario formula principi generali e disposizioni particolari, orientandosi ad una gestione "liberale" del problema. Importante è segnalare che in Europa non esiste alcun sistema penitenziario che adotti politiche di riduzione del danno, a parte qualche isolata sperimentazione. In Italia il Ministero di Giustizia ammette con gran difficoltà anche l’esistenza di rischi specifici carcerari nella diffusione della patologia in questione.

Nessuna circolare accenna alla possibilità di adottare misure di riduzione del danno, come pure non vi è fatto cenno alcuno nel "Progetto SSN - carcere", elaborato per consentire alle aziende sanitarie di gestire il passaggio di competenze sanitarie previsto dal D.lgs. 230/199924. Esistono delle "Linee giuda sulla riduzione del danno" promulgate dal Ministero della sanità (in appendice) come risposta all’emanazione delle direttive dell’OMS note come "Principio d’equivalenza della cure".

Per quanto riguarda nello specifico la tutela della salute nei casi di AIDS le normative internazionali hanno sottolineato la necessità di garantire dei diritti che, potenzialmente, le strutture penitenziarie possono ledere:

 

Uno studio promosso dall’OMS sulla condizione dei sieropositivi, condotto in istituti penitenziari di vari paesi, ha identificato dei caratteri costanti: lo stato di salute dei detenuti è inferiore rispetto a quello della popolazione esterna, la qualità dell’alimentazione è inferiore alla media esterna, il livello economico e sociale del detenuto è inferiore alla media generale, i livelli di stress sono molto elevati e favoriscono l’immuno-depressione. Da sottolineare che per l’Aids sono stati utilizzato istituti previsti dagli ordinamenti penali e penitenziari dei vari paesi e solo l’Italia, con la legge n. 222/93, stabilisce l’incompatibilità tra detenzione e malattia Aids e con la legge 231/99.

Gli autori sono molto critici nel considerare i dati, quanto precisano che il dato relativo al numero di presenze di sieropositivi si riferisce al flusso di detenuti in ingresso che si sottopongono al test sierologico e non all’intera popolazione detenuta. Avvertono inoltre che, malgrado i sieropositivi m carcere non sono aumentati rispetto al numero dei detenuti tossicodipendenti, il legame tra tossicodipendenza e HIV è strettissimo, ma evidenziano la percentuale altissima di detenuti tossicodipendenti sieropositivi. Gli autori riportano dati AMAPI che stimano circa 6.500 casi di HIV positivi ristretti. La distribuzione percentuale dei casi di AIDS fra gli immigrati è in continuo aumento dal 1998 ad oggi rappresentando circa il 10% del totale delle denunce.

Esiste un "rapporto diretto tra carcere e sieropositività, nel senso dell’esistenza di modalità con cui l’istituzione favorisce la diffusione del virus: sono i casi in cui il carcere diventa un ambiente ad alto rischio, in cui si verifica un effetto-ponte tra soggetti a rischio ed altri abitualmente non considerati tali, che finiranno per contrarre l’infezione in carcere".

Fattori specifici di rischio individuati:

 

Il diritto alla tutela per i "figli del carcere"

 

In Italia i "figli del carcere" sono "solo" una cinquantina: non sono un grande numero e quindi non rappresentano un problema! E, cosa da non sottovalutare, non parlano, non hanno voce per difendere la loro vita, o meglio, il diritto a nascere liberi, nascono già in galera, segnati dal destino delle loro madri… le colpe dei padri cadranno sui figli.

Secondo dati forniti dal DAP al 31.12.1998 erano 14 gli asili nido funzionanti, 4 i non attivi, 41 le detenute madri, 42 il numero dei figli, e 4 le detenute in stato di gravidanza.

È necessario forse ricordare il principio della preminenza dell’interesse del bambino contemplato nell’art. 3 della Convenzione sui diritti del bambino di New York del 1989 che recita: "in tutte le decisioni riguardanti i bambini di competenza sia delle istituzioni pubbliche o privata e di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente".

Anche la Costituzione individua all’art. 12 i diritti relazionali della personalità e cioè il diritto ad essere allevato e educato da entrambi i genitori, comunque nell’ambito della propria famiglia (art. 18); il diritto a non essere separato dai genitori e quello di mantenere rapporti personali e contatti diretti con quello dei (o entrambi) genitori da cui separato per ragioni familiari (art. 9), o sociali (art. 10); il diritto di essere educato, mantenuto, istruito senza subire gravi, (o comunque rilevanti) pregiudizi allo sviluppo della personalità, senza abuso dei poteri inerenti alla potestà, e dunque nel rispetto delle proprie capacità, aspirazioni, ed inclinazioni personali (artt. 19 e 20).

Nello specifico panorama italiano entrano in carcere solo i bambini delle detenute nomadi. A Rebibbia le nomadi entrano all’ottavo, nono mese di gravidanza e con un bambino che non ha ricevuto alcun tipo di insegnamento. Le puericultrici e la polizia penitenziaria si ritrovano a doversi prendere in carico questi bambini fin dal loro ingresso, ad insegnare alle madri come prendersi cura e curare i loro figli, si parla di igiene, della pulizia del bambino e delle abitudini alimentari.

Nello specifico panorama italiano per la tutela dei "bambini in stato di detenzione", entra in vigore l’8 marzo 2001 la legge "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori". Questa legge, concepita per affermare il principio costituzionale che, negli artt. 30 e 31, prevede per i genitori il "diritto dovere di mantenere i figli concedendo a questo scopo anche agevolazioni economiche e di altra natura", afferma il valore della maternità e del rapporto madre- figlio.

Introduce importanti modifiche quali:

Nel caso non fosse possibile applicare il beneficio della detenzione domiciliare speciale l’assistenza all’esterno ai figli minori può essere effettuata applicando l’art. 21 bis dell’ordinamento penitenziario, in cui si applicano le disposizioni relative al lavoro esterno, previste dall’art. 21. Estremamente importante è sottolineare il riconoscimento di questi benefici anche al padre qualora la madre sia impossibilitata ad occuparsi dei figli o sia deceduta.

La detenzione domiciliare speciale permette di espiare la pena nella propria abitazione, oppure in un luogo di assistenza o accoglienza con i figli. Per le donne straniere, o per coloro che hanno perso la casa a seguito della carcerazione, la possibilità di poter essere accolte in strutture diventa una soluzione importante per mantenere il ruolo genitoriale. Questa possibilità ha comunque restrizioni: vi deve essere la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, non deve sussistere concreta possibilità di commissione di altri reati, la decisione finale spetta comunque al Magistrato di sorveglianza. Non prevedendo forme automatiche di scarcerazione per le detenute con figli inferiori ai 10 anni ad oggi la legge non ha ancora prodotto risultati significativi.

 

 

La salute e la norma

 

Legittimità della pena e malattia

 

Nello scenario carcerario diventa fondamentale porsi la domanda se nei casi di malattia grave la pena debba applicarsi con modalità esecutive diverse da quelle previste. A tal proposito il fenomeno Aids ha posto al sistema carcerario una serie di problemi riguardanti la questione della definizione. dei limiti giuridici entro i quali il carcere possa ancora essere considerato uno strumento di pena compatibile con uno stato democratico di diritto.

Magliona e Sarzotti riflettendo sulla tutela dei diritti individuali e lo stato di detenzione sottolineano, in particolare, come la situazione del condannato affetto dal virus dell’AIDS ha fatto esplodere contraddizioni profonde tra come la nostra cultura può legittimare teoreticamente l’esecuzione della pena e il funzionamento di quell’apparato di sapere-potere che è l’istituzione carceraria. La gestione di questo fenomeno "si esprime negli operatori carcerari con un insieme di atteggiamenti, rappresentazioni e stereotipi [...] riassumibili nel continuo contrasto tra codice paterno (custodiale) e codice materno (trattamentale)". Tali contraddizioni sono state affrontate dai sistemi penitenziari nazionali cercando di rimuovere tali nodi, senza peraltro riuscire a conciliare l’aspetto etico-riabilitativo della pena con l’approccio correzionalista del carcere".

Nella prospettiva di una teoria della pena retributiva, regolata e qua!1tificata nelle modalità afflittive secondo i principi di proporzionalità e di determinazione certa della pena: la pena comminata al malato deve essere proporzionale alle sue aspettative di vita, ma le modalità di esecuzione della pena stessa non devono essere tali da colpire il malato più gravemente solo a causa del suo stato d’infermità.

Proprio dal concetto di retribuzione si tende a vedere nella rivendicazione dei diritti del malato-detenuto un modo per riconfermare una pena nei limiti stabiliti dal diritto, cioè il detenuto è da intendersi come soggetto giuridico a tutti gli effetti che mantiene tutti i diritti compatibili allo stato di detenzione, e "ciò deriva non già da una paternalistica concessione umanitaria da parte dell’istituzione punitiva oda una malintesa compassione nei confronti del detenuto che soffre, ma dallo stesso principio retributivo, secondo il quale la pena deve essere esattamente quantificata e predeterminata nei suoi aspetti afflittivi". Da un punto di vista empirico, il fatto che normative internazionali abbiano sentito la necessità di confermare principi di uguaglianza dei diritti dei soggetti detenuti malati sottolinea come le pratiche detentive siano alquanto distanti da un modello giuridico di esercizio della pena. Per quanto riguarda la gestione del fenomeno negli istituti penitenziari sembrano sussistere due modelli:

Magliona e Sarzotti scrivono che, sia nel modello di gestione autoritario sia attuando l’espulsione dal circuito penitenziario dei detenuti affetti dal virus HIV, sembra prevalere una logica autoreferenziale dell’istituzione carceraria, cioè tesa a riconfermare la propria stabilità interna. Il detenuto è visto come un problema scomodo da gestire e non come un soggetto giuridico responsabile delle proprie azioni e dotato di una autonoma capacità di scelta.

È da sottolineare che questa distinzione riguardante la gestione del fenomeno non si riscontra nel diritto penitenziario o in testi legislativi ma è una ricostruzione, da parte dei ricercatori, di modalità di gestione proprie di ogni istituto, basate sul regolamento interno, di un problema, per lo più visto come emergenza.

In ciò ha trovato espressione, per l’ennesima volta, "quell’autonomia e quella costitutiva eterogeneità del carcerario rispetto al discorso giuridico dello stato di diritto, che già Foucault denunciava e che rappresenta certamente uno degli aspetti più inquietanti e persistenti del modello punitivo delle nostre società".

Si potrebbe affermare con gli autori, in modo forse un poco paradossale, che "ribadire, da un lato, la tutela dei diritti individuali del detenuto e, dall’altro, il dovere sociale di punire equamente tutti i consociati, come soggetti giuridici responsabili delle proprie azioni, sia il modo più idoneo non solo di sostenere le ragioni dello stato di diritto, ma anche di predisporre politiche di contenimento della diffusione dell’Aids efficaci, in quanto fondate sulla responsabilizzazione morale e sociale degli individui colpiti dal virus HIV".

 

La tutela della salute e le norme di esecuzione della pena in caso di malattia del detenuto

 

La pena detentiva, come afflizione e privazione, deve tenere conto dello stato di malattia del soggetto, a meno di perdere il carattere di umanità che la Costituzione (art. 27) stabilisce per la sanzione penale. Il problema di giustificare la pena in presenza di uno stato di malattia necessiterebbe di stabilire per quali patologie è inutile continuare lo stato detentivo in carcere. Ma nella realtà il criterio oggettivo - diagnostico della gravità della malattia viene relativizzato in funzione dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario intramurale.

Diventa complesso valutare lo stato di gravità della malattia, che deve essere bilanciato tra la diagnosi medica e la possibilità, per il detenuto, di poter usufruire di prestazioni esterne ritenute più idonee rispetto quelle offerte dalla struttura carceraria. A tal proposito si ricorda che la Corte costituzionale nella sentenza 114/79 ha chiarito che per "grave infermità fisica" rilevante ai fini della applicazione dell’art. 147, c.p., che prevede il "rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena" per "chi si trova in condizioni di grave infermità fisica", deve intendersi quella "non suscettibile di guarigione mediante le cure o l’assistenza medica disponibile in luogo di esecuzione".

Tuttavia alcune sentenze hanno vincolato la concessione del differimento alla possibilità della regressione della malattia (quale effetto di trattamenti terapeutici praticati in stato di libertà), quindi contraddicendo la prima interpretazione.

In altre sentenze ancora si trovano letture della legge improntate a una maggiore umanità: al rischio di morte, quale elemento per determinare l’effettiva gravità delle condizioni fisiche, si aggiunge quello che la malattia "cagioni altre rilevanti conseguenze dannose". Ma l’interpretazione di maggior favore si trova in questa pronuncia: "La guaribilità o reversibilità della malattia non sono requisiti richiesti dalla normativa vigente in tema di differimento dell’esecuzione della pena, per la cui concessione è sufficiente che l’infermità sia di tale rilevanza da far apparire l’espiazione in contrasto con il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione".

La diagnosi del medico dell’istituto diventa fondamentale in quanto si basa sulla effettiva valutazione della possibilità di cura intramuraria, e solo dopo avere verificato questa condizione si può pensare di ripristinare, in tutto o in parte, lo stato di libertà del soggetto. L’art. 17 dell’Ordinamento Penitenziario è uno dei parametri di riferimento nella decisione del rinvio facoltativo, mentre l’incompatibilità si rapporta al livello di prestazioni offerte dalla struttura penitenziaria. Solo in situazioni estreme, quali le fasi terminali il problema di adeguatezza non si pone. Esistono istituti giuridici che per ragioni umanitarie permettono la liberazione anticipata del detenuto qualora sia imminente la sua morte, "in modo da poter morire in condizioni di dignità e libertà".

Per evitare di creare qualsiasi automatismo dei provvedimenti alternativi alla detenzione, con relativi problemi di sicurezza, lo stato di salute "particolarmente grave" non è identificato da nessuna categoria, non esistono criteri e descrizioni delle patologie che potrebbero essere ritenute, in qualche modo, incompatibili con la vita in carcere. Una sentenza della Corte di Cassazione rileva che la condizione di "particolare gravità" comprende "tutti gli stati morbosi che siano idonei, per la loro serietà e imponenza, a pregiudicare notevolmente l’integrità fisica e psichica del detenuto".

Comunque lo stato di salute incide sulle diverse condizioni detentive: differimento o esecuzione della pena, custodia cautelare, detenzione domiciliare, sospensione dell’esecuzione della pena, applicazione di sanzioni sostitutive, Si può riassumere che la pena non è scontata in carcere se la gravità delle condizioni di salute è tale da:

Per quanto riguarda l’esecuzione della pena possiamo affermare che per legittimare il rinvio per grave infermità devono ricorrere due requisiti autonomi:

È da sottolineare che il detenuto propone al Tribunale di Sorveglianza istanza di rinvio, ma è il giudice che decide e bilancia le esigenza della pena con i diritti del malato. Il giudice deve verificare "non solo l’entità della patologia e le conseguenze che da essa possono derivare, ma anche se tale malattia sia curabile nella struttura sanitaria dell’istituto di reclusione o in altro luogo esterno di cura" e può disporre una perizia medico-legale per valutare la compatibilità o meno con il regime carcerario.

D’Ascola rileva che l’art. 299, comma 4, c.p.p., impone al giudice di disporre perizia "tutte le volte in cui l’imputato abbia richiesto la sostituzione ovvero la revoca della misura cautelare ad egli applicata adducendo motivi di salute ed anche ragioni di salute mentale". Continua ricordando che sulla base dell’art. 648 c.p.p. è possibile disporre "la sospensione dell’esecuzione della pena [...] a cagione di una riconosciuta, ancorché intervenuta all’esecuzione della condanna, condizione di infermità (anche di infermità mentale)".

 

La legge 230: profili generali

 

Il Decreto Legislativo 22 giugno 1999, n. 230 (testo riportato integralmente in appendice) delinea gli indirizzi della Medicina Penitenziaria nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), Si articola in momenti temporaneamente distinti:

Con il successivo decreto del Ministero della Sanità e del Ministero della Giustizia del 20.04.2000 sono state individuate le Regioni Toscana, Lazio e Puglia. Il Ministero della Giustizia, in accordo con il Ministero della Sanità, viste le disposizioni sopra citate ma in assenza del relativo Decreto di trasferimento delle risorse finanziarie e del personale, ha emanato la Circolare n. 578455/14 toss. gen. del 21.01.2000 (testo riportato integralmente in appendice) con la quale si definisce il passaggio delle sole funzioni relative alla prevenzione generale (di pertinenza dell’Igiene Pubblica) e il trasferimento funzionale del personale del presidio per le tossicodipendenze ai Ser.T. territorialmente competenti. L’onere finanziario resta peraltro di competenza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

La legge 230 nasce come tentativo di collegare le istituzioni, distribuendo gli ambiti di competenze fra il Ministero della Sanità e il Ministero della Giustizia, e prevedendo, gradualmente, il trasferimento al primo delle funzioni sanitarie. Caselli sostiene l’importanza di "un possibile collegamento funzionale organizzativo del carcere come portatore di un’identità sanitaria non separata dal resto del territorio su cui dovrà andare inevitabilmente ad articolarsi".

Stabilisce inoltre che nella Relazione annuale sullo stato sanitario del Paese il Ministero della Sanità, d’intesa con il Ministero della Giustizia, deve dedicare un capitolo specifico all’assistenza sanitaria penitenziaria.

Il capitolo deve:

Con questo decreto legislativo il SSN si riappropria della funzione di assistenza sanitaria dei detenuti e del principio di globalità (art. 1, l. 833/78) assicurando:

 

E. inoltre prevista la creazione e l’adozione di una Carta dei servizi sanitari per i detenuti. elaborata fra le due amministrazioni, con rappresentanze dei detenuti e degli organismi di volontariato per la tutela dei diritti dei cittadini.

Nello specifico il Decreto n. 230 all’art. 1, "Diritto alla salute dei detenuti e degli internati", recita: "I detenuti egli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali".

La legge prevede anche per gli stranieri "parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai cittadini liberi, a prescindere dal regolare titolo di permesso di soggiorno in Italia", quindi l’iscrizione al SSN è obbligatoria per tutti i detenuti "per tutte le forme di assistenza, ivi compresa quella medico generica". Viene con ciò riconosciuto il diritto dei cittadini reclusi ad usufruire di tutte le prestazioni specialistiche, infermieristiche, farmaceutiche, etc. erogate dal SSN. In tal senso il detenuto continuerà a mantenere un rapporto fiduciario con il proprio medico curante che potrà indirizzare il paziente verso le strutture adeguate dopo la eventuale di missione dal carcere. È ribadita l’esenzione alla spesa sanitaria per tutti i reclusi.

L’art. 2 stabilisce il principio della collaborazione fra le amministrazioni, allo scopo di garantire le prestazioni e il raggiungimento degli obiettivi dei Piani sanitari. Specifica inoltre che "L’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati è organizzata secondo i principi di globalità dell’intervento sulle cause di pregiudizio della salute, di unitari età dei servizi e delle prestazioni, di integrazione della assistenza sociale e sanitaria e di garanzia della continuità terapeutica".

Sempre l’art. 2 stabilisce il principio della separazione delle competenze tra le AA.SS.LL e l’amministrazione penitenziaria, assegnando alle prime il compito di erogare le prestazioni e all’altra la garanzia della sicurezza. Nella fattispecie sono competenze del Ministero della Sanità la programmazione, l’indirizzo e il coordinamento del SSN nei vari istituti, alle Regioni spetta la funzione di organizzazione e controllo sul funzionamento nei vari istituti e alle AASSLL sono affidati la gestione e il controllo dei servizi sanitari in istituto.

All’Amministrazione penitenziaria compete la funzione di garanzia della sicurezza negli istituti e nei luoghi esterni di cura. L’art. 4 ne individua le competenze. In concreto le modalità d’ingresso negli istituti del personale del SSN saranno stabilite dalle Direzioni del carcere e dell’ASL. Il personale è tenuto all’osservanza delle norme dell’ordinamento penitenziario, del regolamento interno, delle direttive dell’Amministrazione penitenziaria e del Direttore d’istituto in materia di organizzazione e sicurezza. A tal riguardo nel Progetto è contenuta una dichiarazione molto importante "In ogni caso, mai le ragioni di sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita".

L’art. 5 prevede un apposito progetto obiettivo per la tutela della salute in campo penitenziario che definisce gli indirizzi alle Regioni. Il 25 maggio 2000 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario (testo riportato integralmente in appendice) dove sono individuate le aree prioritarie di intervento: la prevenzione, l’assistenza medica generica, la medicina d’urgenza, le malattie psichiatriche, la tossicodipendenza, gli immigrati, le malattie infettive, i minori, la riabilitazione. Si sottolinea, però, come non esista "un sistema di rilevazione nazionale delle patologie in ambito penitenziario", il che si concretizza nell’impossibilità di sapere con precisione quali e quanti interventi siano necessari. In pratica ogni ASL deve inventare una propria strategia per la profilassi e la cura delle malattie.

Le Direzioni delle AASSLL sono chiamate a rispondere per quanto riguarda la loro responsabilità nella realizzazione degli obiettivi e sarà oggetto di valutazione dell’attività stessa dei Direttori generali, in relazione al concreto funzionamento dei servizi, con riferimento alle risorse disponibili e alle caratteristiche degli istituti penitenziari.

A differenza del passato le Direzioni delle strutture sanitarie territoriali sono coinvolte in prima persona nel raggiungimento delle finalità di tutela. I Provveditorati delle Amministrazioni Penitenziarie interverranno nell’attuazione degli indirizzi regionali anche con propri progetti d’intervento.

In questo Progetto è dedicata attenzione particolare alla formazione, alla realizzazione di comitati tecnici interministeriali che, a livello regionale e nazionale, coordinino l’attività sanitaria in carcere. Un altro punto importante riguarda i modelli organizzativi che prevedono la costituzione di:

Le intenzioni di principio nella legge 230 sono molto apprezzabili, ma lo scetticismo maggiore è legato al mancato stanziamento di fondi necessari per fare decollare i buoni propositi! Leggendo giornali e interviste si evince che la cura dei malati in carcere è peggiorata in quanto si è prodotto un’incertezza delle competenze e uno spostamento di risorse umane dall’area sanitaria vera e propria all’area "logistica", con un aumento di addetti alla programmazione e alla gestione degli interventi, rispetto al personale sanitario effettivo.

 

L’assistenza sanitaria nel nuovo regolamento penitenziario

 

In linea con il Decreto 230/99, il nuovo regolamento penitenziario accoglie la riforma della medicina penitenziaria modificando gli articoli dedicati all’assistenza sanitaria. In materia sanitaria, come si legge nella Relazione alla Bozza22, "le modifiche apportate sono rivolte alla definizione di interventi che rispettino il diritto costituzionale alla salute delle persone detenute ed internate".

Emerge una triplice esigenza:

 

La modifica più rilevante del nuovo ordinamento penitenziario riguarda l’entrata in vigore della legge 230/99 e i rapporti tra l’Amministrazione penitenziaria e il SSN. In particolare l’art. 17, "Assistenza sanitaria", al comma 1, stabilisce un collegamento con le norme sanitarie nazionali e, al comma 4, promuove l’organizzazione di reparti clinici e chirurgici con opportune dislocazioni nel territorio nazionale, "sulla base delle indicazioni desunte dalla rilevazione e dall’analisi delle esigenze sanitarie". È quindi un tentativo di creare nuove strutture rispondenti a precise esigenze territoriali e sanitarie. È sottolineato, inoltre, che al detenuto è mantenuta la possibilità di ricevere la visita di un sanitario di fiducia, sia per le cure mediche e chirurgiche, sia per ogni altro trattamento terapeutico, anche se tali prestazioni sono a totale carico del detenuto e devono essere eseguite all’interno della struttura penitenziaria.

Al comma 9 è sottolineata l’esigenza di prevenzione e continuità terapeutica, infatti si legge che "In ogni istituto devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rivelino, segnalino ed intervengano in merito alle situazioni che possono favorire lo svilupparsi di forme patologiche, comprese quelle ricollegabili alle prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell’attività fisica". La prevenzione delle situazioni patologiche ha spinto il legislatore a tenere conto, a differenza del passato, della negatività, in termini di salute mentale e fisica, del regime detentivo, L’art. 18 stabilisce il divieto di chiedere ai detenuti e agli internati la partecipazione alla spesa sanitaria per prestazioni erogate dal SSN.

L’art. 19 presenta alcune modifiche tese a migliorare le condizioni generali della maternità in carcere. Si sottolinea che il parto deve essere preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura, la necessità di creare appositi reparti di ostetricia e di asili nido e l’esigenza di assicurare servizi adeguati per i bambini, coinvolgendo i servizi territoriali e il volontariato.

Nell’art. 20, "Disposizioni particolari per gli infermi e seminfermi di mente", al comma 1 si legge che nei loro confronti "devono essere attuati interventi che favoriscano la loro partecipazione a tutte le attività trattamentali e in particolare a quelle che consentano, in quanto possibile, di mantenere, migliorare o ristabilire le loro relazioni con la famiglia e l’ambiente sociale...il Servizio sanitario pubblico territori al mente competente, accede all’istituto per rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari l’individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale". Inoltre si precisa che coloro che sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile sono ammessi al lavoro, gli altri possono essere assegnati ad attività ergoterapiche.

Inoltre l’art. 20 sembra prestare una maggiore attenzione alla malattia mentale cercando di favorire:

In tale senso si può leggere anche l’art, 113 ove si prevede che la gestione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) possa essere affidata al SSN mediante convenzioni. L’intervento psichiatrico si estende, poi, alla previsione di un trattamento diversificato che consenta l’assegnazione alle strutture psichiatriche solo nei casi necessari. Infatti l’art. 111, in applicazione dell’art. 65, prevede l’esecuzione negli istituti ordinari anche per coloro che siano condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente. In tal modo, da una parte si selezionano i soggetti realmente bisognosi dell’internamento, dall’altra potranno essere evitate quelle ricadute negative che l’inserimento in una struttura istituzionalizzata comporta. Questa operazione, ovviamente, presuppone un potenziamento dei servizi d’istituto. L’art. 111 prevede che gli operatori e i volontari da assegnare agli OPG siano "selezionati e qualificati, con particolare riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati".

Sempre all’art. 20, si dispone che i detenuti e internati tossicodipendenti che presentino anche infermità mentali siano seguiti in collaborazione dal SERI e dal servizio psichiatrico. Tale operazione richiede, in verità, l’inserimento della figura dello psichiatra nel Ser.T. oltre al "calibramento" del servizio stesso non sulla capienza ma sull’effettivo flusso di popolazione alla struttura. Inoltre stabilisce, sempre in materia di infermità mentale, l’ingresso di operatori del SSN nell’istituto per "rilevare le condizioni e le esigenze degli interessati e concordare con gli operatori penitenziari la individuazione delle risorse esterne utili per la loro presa in carico da parte del servizio pubblico e per il loro successivo reinserimento sociale".

L’esigenza di prevenzione si esprime oltre che nelle regole sulle condizioni ambientali (artt. 6-16) in norme, come l’art. 23, dove si prescrive che la persona, al momento dell’ingresso, sia esaminata da un esperto del trattamento e dell’osservazione. Il provvedimento regolarizza, cosi, il servizio "nuovi giunti" istituito e disciplinato fino ad ora solamente da circolari ministeriali.

 

La legge 231/99 in tema di incompatibilità

 

Il nuovo testo stabilisce l’incompatibilità tra detenzione e AIDS, o comunque una grave deficienza immunitaria, conferma il principio generale del divieto di detenzione in carcere, prevedendo il ricorso agli arresti domiciliari, il trasferimento in luoghi di cura, la concessione dell’affidamento in prova e della detenzione domiciliare. Il Decreto d’Attuazione stabilisce i criteri clinici dell’incompatibilità necessari per chiedere l’accesso alle misure alternative indispensabili per una cura efficace ma comunque lascia al magistrato la discrezionalità sulla concessione di tali provvedimenti, anche se il rifiuto dovrebbe essere motivato unicamente dalla pericolosità sociale del detenuto. La legge lascia ampia discrezionalità al magistrato nel determinare la pericolosità sociale, motivo sufficiente per negare la scarcerazione e per disporre il ricovero nei Centri Clinici Penitenziari. Il mantenimento del soggetto in carcere dovrebbe diventare una misura di extrema ratio, essendo previsto solo alla presenza di gravi delitti compiuti dopo l’applicazione delle misure non detentive.

La legge 231/99 modifica e regola i casi di inidoneità alla misura detentiva, difatti al comma 4 bis dispone il divieto di custodia cautelare in carcere "...quando l’imputato è persona affetta da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria accertate [...] ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere".

Se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e se la custodia cautelare non è possibile presso idonee strutture penitenziarie senza pregiudizio per la salute dell’imputato o quella degli altri detenuti, si prevede la possibilità degli arresti domiciliari presso un luogo di cura, di assistenza o di accoglienza. È stabilito inoltre che, per i soggetti affetti da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possano essere disposti presso le unità operative di malattie infettive (ospedaliere, universitarie o di altri enti), presso una residenza collettiva o una casa alloggio.

La custodia in carcere, dunque, si presenta quale misura specifica da disporre solo in caso il soggetto sia imputato (o sottoposto ad altra misura cautelare) per uno dei delitti previsti dall’art. 380. L’art. 276 c.p.p. dà facoltà al giudice di disporre la misura in carcere, quando il soggetto, che si trovi nelle condizioni di cui al comma 4 bis dell’art. 275, trasgredisce le prescrizioni inerenti alla diversa misura cautelare disposta in precedenza. Ma neanche in questi due casi le esigenze di cura sono trascurate. Infatti il giudice deve disporre che l’imputato sia condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie.

La legge 231/99 considera inutile la permanenza in carcere se esiste uno stato di salute del soggetto molto grave, stabilendo, per tutti i tipi di patologie, l’incompatibilità assoluta. Il differimento obbligatorio è stabilito a favore di persona affetta da AIDS conclamata, da grave deficienza immunitaria, oda altra malattia particolarmente grave tale per cui le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, cioè "quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative". La norma, dunque, in coerenza con le determinazioni della Corte, abiura l’automatismo e si rifà alla valutazione individualizzata auspicata dalla Consulta. A differenza del passato si fa riferimento alle certificazioni dei medici ospedalieri.

Il Decreto 231/99 dispone l’estensione delle misure (affidamento in prova e detenzione domiciliare), a favore dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, "che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza" presso le unità operative. In tal modo i soggetti individuati possono godere di un trattamento diversificato che consente il decorso della malattia in condizioni ambientali adeguate e, soprattutto, vicino alla famiglia. Restano comunque esclusi altri soggetti sieropositivi per i quali si prospetta il ricovero routinario in luogo esterno (ex art. 11 Ordinamento Penitenziario). In termini numerici però questi ultimi rappresentano la maggioranza tra gli affetti da HIV.

La revoca della misura è sottoposta alle analoghe limitazioni, previste in tema di gravi delitti e trasgressioni ma è ugualmente disposta la detenzione presso un istituto carcerario dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. Tali disposizioni sono applicate anche alle persone internate. Per la richiesta della misura alternativa si fa espresso riferimento alla certificazione del servizio sanitario penitenziario.

Da dati raccolti questa legge sembra, in gran parte inapplicata anche perché i Centri Clinici sono utilizzati come ragione per rifiutare misure alternative a coloro che si trovano in condizioni sanitarie gravi. Da sottolineare che l’art. 6 della legge n. 231/99 stabilisce che detenuti con altre patologie (non AIDS) possano richiedere la scarcerazione e l’ammissione a misure alternative quando "sono affetti da malattia grave, per la quale non vi siano più terapie disponibili, che possano essere effettuate in carcere". Ma in alcuni pronunciamenti di magistrati questa condizione è stata posta come aggiuntiva, anche per persone affette da AIDS, con il risultato che ne è stata disposta la custodia nei Centri Clinici.

 

Costituzione "Unità operativa" di sanità penitenziaria

 

Con la circolare n. 3543/5993, del 23 febbraio 2001, l’Ufficio del capo del Dipartimento sancisce la costituzione di una "unità operativa" di sanità penitenziaria presso i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. Il provvedimento nasce dall’esigenza di creare un nucleo per il coordinamento degli aspetti sanitari dell’attività svolta dagli istituti penitenziari nell’ambito regionale, in quanto il decreto legislativo 444/92 ha omesso l’area sanitaria nei Provveditorati e ha frazionato i diversi aspetti della materia tra le altre aree operative di quelle strutture, Ai provveditorati è stata attribuita una specifica competenza in tema di rapporti con le regioni e con il Sistema Sanitario, È nata l’esigenza di garantire una gestione unitaria del servizio per garantire una risposta congrua, in termini di qualità e appropriatezza, alle numerose richieste del settore, In base alla normativa del riordino della sanità penitenziaria un solo medico per un massimo di 6 ore alla settimana come consulente del Provveditore non può che garantire un intervento disarmonico e frammentario, Risulta necessario avvalersi di una unità organizzativa, che interfacci direttamente con il Provveditore, che, oltre a rispondere alla criticità, organizzi gli interventi diretti ad attuare le trasformazioni necessarie.

Questa dovrà essere composta, utilizzando comunque risorse di personale disponibili:

 

È al vaglio l’opportunità di elevare il termine massimo delle 6 ore settimanali dei medici incaricati nel servizio ai provveditorati per consentire lo svolgimento delle riunioni, Il provveditore potrà inoltre avvalersi della consulenza di altri professionisti se si ravvisa la necessità nei settori di alta specificità medica o comunque in particolari materie attinenti al servizio.

Compito dell’unità operativa è di occuparsi dell’andamento dell’attività sanitaria svolta dagli istituti del distretto mediante un’azione di coordinamento, di pianificazione, di attuazione dei programmi d’intervento stabiliti e di verifica delle attività.

Particolare attenzione è rivolta ai progetti già avviati:

Compito fondamentale è coordinare ed indirizzare gli interventi delle direzioni presso le A.S.L. in uno spirito di fattiva collaborazione. Rientrano nelle competenze dell’unità operativa pure le problematiche legate alla carenza di infermieri professionali, la gestione dei rapporti con la Regione in ordine alla razionalizzazione degli interventi in particolare in materia di psichiatria, le proposte di assegnazione dei detenuti inviati da altri provveditori per il ricovero nei centri clinici dopo averne verificato la diagnosi, la collaborazione, nel settore della sicurezza nei luoghi di lavoro, con l’area tecnica e quanto attenga alla sanità. Si nota come questa modalità non sia ancora operativa ma solo in alcune regioni si sia iniziata la sperimentazione.

 

I detenuti stranieri e il diritto alla salute in carcere

 

La popolazione immigrata detenuta (P.I.D.), nell’ultimo decennio è aumentata in modo sostanziale. È importante rilevare che molti di questi soggetti solo il loro ingresso in carcere vengono a contatto per la prima volta nella loro vita con un sistema sanitario organizzato. Si sottolinea che il decreto 230/99 e il Regolamento di attuazione disciplinano l’erogazione delle prestazioni sanitarie per gli stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale e per i "clandestini". In particolare, anche in assenza del permesso di soggiorno sono assicurate non solo prestazioni sanitarie d’urgenza ma anche:

 

La 230/99 rivolge particolare attenzione alle problematiche di:

 

Al fine di programmare e realizzare un intervento mirato è necessario:

 

Diventa di fondamentale importanza considerare:

 

Ma "garantire" astrattamente sul piano legislativo un diritto non significa renderlo accessibile a chi ne deve godere e, nella fattispecie, dichiarare che anche gli stranieri "clandestini" hanno diritto alle cure (d’urgenza, essenziali e preventive), non vuol dire rendere queste "cure" accessibili e fruibili per loro alla stregua dei cittadini Italiani.

Questo fa sì che, ancora oggi e in maniera assolutamente paradossale, il carcere sia per moltissimi stranieri clandestini, il primo luogo in Italia dove possono sottoporsi a cure mediche e a visite preventive. Purtroppo, questo stesso meccanismo è tale che usciti dal carcere difficilmente potranno proseguire il trattamento o la cura intrapresa.

Il carcere, d’altra parte, come ben documentato nel "Documento Base" presentato al Convegno di studio. "Il Servizio sanitario per il diritto alla salute dei detenuti e degli internati" (Roma, aprile ‘99), "ha manifestato nel complesso, al di là dell’impegno dei singoli operatori, una difficoltà strutturale a garantire una globalità e una unitari età delle prestazione preventive, curative e riabilitative. (...) Si tratta, in generale, di servizi che si attivano a "domanda individuale", con difficoltà oggettive a svolgere la funzione di presa in carico del bisogno globale di salute". A questo si aggiunge il fatto che, sempre secondo quanto indicato nello stesso documento, "la finalità di fondo del servizio sanitario penitenziario è rappresentata, in prevalenza, dalla copertura del rischio per garantire le responsabilità del!’ Amministrazione". Il carcere, dunque, da una parte rappresenta, molto spesso, una prima occasione di "cura" per chi, come gli stranieri irregolari, non ne ha avute all’esterno. Allo stesso tempo, però, neppure il carcere garantisce una "presa in carico" sanitaria delle persone che sono detenute, ma si limita ad affrontare e a tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o "a rischio" per la salute di tutti (es.: malattie infettive).

L’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio (che riguarda anche le strutture pubbliche sociali e sanitarie) rende quasi impossibile il passaggio di documentazione tra interno ed esterno. Nello stesso tempo, iniziare cure e terapie all’interno del carcere, senza sapere se queste terapie potranno essere poi continuate al momento dell’uscita (es.: epatite, infezione da HIV) fa si che tali terapie non possano di fatto essere prescritte neppure se ci sarebbero le indicazioni per farlo.

Le strutture territoriali chiedono un tale grado di attivazione da parte dei singoli soggetti da renderle, di fatto, non usufruibili da parte di coloro che, stranieri e malati, non sono in grado di "muoversi" in maniera autonoma nel complesso sistema territoriale. Neppure coloro che sono affetti da malattie documentate o diagnosticate in carcere possono godere di una maggiore presa in carico da parte delle strutture territoriali: tossicodipendenza, infezione da HIV, malattie psichiatriche. L’uscita dal carcere non prevede la consegna di alcuna documentazione sanitaria (anche per questa deve essere il singolo ad attivarsi... ma per farlo dovrebbe sapere come muoversi!) e spesso le strutture territoriali richiedono la residenza o comunque un domicilio effettivo per attuare la presa in carico.

Di fatto, dunque, neppure il carcere garantisce un’uguale usufruibilità di cure e di accesso ai servizi sanitari per le persone straniere, mantenendo anche al suo interno un sistema che "blocca" chi si trova in una situazione di maggior disagio, limitandone ulteriormente le possibilità di risorse personali.

 

La salute in carcere

 

Corpo del detenuto e stato di detenzione

 

Nel classificare i diversi principi ispiratori della sanzione Levi Strauss divide le società in due tipologie: quelle che ingeriscono il corpo del deviante e quelle che lo espellono. Nel nostro contesto non vi è né antropofagia né antropoemia, ma solo ortopedia, correzione del corpo e della mente attraverso la loro separazione.

Con Gallo e Ruggero si concorda che il carcere produce sofferenza e malattie, è una fabbrica di handicap psicofisici2. Il potere penale si esercita sul corpo e sulla sua immagine sociale ma Gallini ricordava che questa questione dopo "Sorvegliare e punire" è stata poco tematizzata, se non solamente da alcune voci provenienti dal carcere. Eppure, ancor oggi come non mai, diventa ineludibile un discorso sul rapporto fra corpo e potere, o meglio fra persona, intesa in tutta la sua unità, nella sua identità di individuo sociale, che nessun sistema penale dovrebbe sopprimere, e il potere.

Nell’attuale realtà penale, il corpo reale e l’immagine del corpo vissuta soggettivamente che fine hanno fatto? Dopo l’atto pubblico del processo, con l’internamento, il corpo del soggetto perde visibilità, diventa un uomo astratto. Il corpo inquisito è trasformato dai mass-media nei grossi casi giudiziari, e l’immagine di devianza-simbolo, non vissuta e riconosciuta dal proprietario reale come immagine di sé, diventa una comunicazione sociale. In tale senso viene cosi proposto un controllo esterno sul corpo del soggetto. Per tutti, anche per i piccoli mostri che non meritano la copertina dei giornali, si ha comunque una perdita d’identità intesa come perdita del proprio corpo e della propria memoria,

tanto da arrivare ad una vera e propria scomparsa sociale dell’individuo reale. In questo modo si crea e mantiene la perdita di una possibilità di una vita di relazione. La società ed il potere negli ultimi anni si sono trasformati, si sono costruite nuove forme di controllo e di condiziona mento del corpo, si è passati da un "uomo astratto", di foucaultiana memoria, ad un "uomo-immagine", prodotto dai media, dall’interpretazione degli attori carcerari, e da quanti gravitano intorno a lui3.

Ci viene rimandato un uomo-simbolo di tutte le aspettative sociali, nella sua immagine più pubblica. Un uomo vuoto al quale, in questo modo, attraverso i potenti mezzi di comunicazione, paradossalmente è stata tolta la possibilità di comunicare veramente, o meglio ci viene restituito, più che un simbolo, un simulacro. È il dramma della massima solitudine per l’uomo in quanto il presente non gli appartiene più e, cosi spogliato della propria identità, non potrà costruirsi alcun futuro.

Come abbiamo finora accennato esiste un’espropriazione dell’identità del soggetto, un furto della sua immagine e della sua progettualità. Ma al corpo fisico del detenuto cosa succede? Per Pavarini la pena della prigione è una pena corporale, qualche cosa che dà dolore fisico e che produce malattia e morte: è sofferenza qualitativamente opposta a quella intenzionalmente corporale, metafisicamente voluta per far soffrire l’anima ed emendarla, e non certo il corpo.

Concetto che trova concretezza quando si nota che il "vecchio" Panopticon è soppiantato dal carcere "piranesianos": si passa dalla tortura dello spazio alla tortura del tempo e della comunicazione, in una sorta di "carcere d’invenzione".

In Bentham, con il Panopticon, la costruzione ortopedica dello spazio crea una interiorizzazione del potere e della norma, tanto da trasformare l’autodisciplina in autogestione della norma. In Bentham e Foucault esiste una netta separazione tra interno ed esterno, tra controllo e controllato, tra norma oggettivata e norma soggettivizzata. Il carcere immateriale produce invece un controllo interiore: trasforma mura e serrature in metafore materiali di regole ben più impalpabili e indefettibili, Perché come mi disse un ex-detenuto "il carcere è dentro di te, nella tua testa..., sarai sempre un detenuto dentro di te...e ti riconoscerai sempre attraverso di esso".

Il carcere piranesiano diventa quindi il simbolo di un inferno mentale, di un "carcere metafisico", un Pannomion, una norma totalizzante, pervasiva ed interiorizzata. Il prigioniero è dunque prigioniero di se stesso, del proprio labirinto mentale, che può essere accettato solo interiorizzando le norme astratte che lo regolano. Lo spazio della reclusione non è più reclusione, è una dilatazione insopportabile, una moltiplicazione angosciosa di piani, un susseguirsi labirintico di sfasamenti e forature della prospettiva circolare, infinita, è uno "spazio vuoto". In questo irrazionale architettonico si sente "Una solitudine infinita, sconfinata, senza traccia di vita: solo pochi, piccoli uomini che sembrano soffrire per nulla, annientarsi nel nulla. [...] vi è solo l’esaltazione della materia, della pietra. Vi è si l’uomo, dal volto privo di emozione, anonimo, indifferente, quasi un ultimo simbolo di vita. Pare a volte esso salga interminabili scale, verso un’ipotetica libertà".

È l’occhio della mente che non intravede alcuna via d’uscita, di libertà, nei concentrici sviluppi dello spazio illimitato della reclusione temporale. La pena si proietta in un tempo sofferente senza fine. Il carcere immateriale è restrizione illimitata e interiorizzazione di un infinito senza tempo.

Precisiamo che Piranesi rappresentava nello spazio infinito la sfida ultima dell’architettura: il contenimento della forma in uno spazio immateriale, i cui limiti sono giocati solo da punti di luce, Nel carcere attuale noi assistiamo invece alla sfida del corpo dilatato a dismisura, fuori dell’umano sentire, un corpo in uno spazio infinito che, proprio per questa sua non-misurabilità, più non lo contiene, Il corpo perde l’identità, ovvero la forma, cioè la possibilità di esistere data dalla relazione con lo spazio e il tempo. Nella estensione al1’infinito di queste dimensioni si perdono le possibilità di fissare un punto di osservazione per guardare, in una visione prospetticamente progettuale, se stessi, È la perdita di vista delle "misure" che fanno si che una vita relazionale sia possibile, che esista un futuro possibile.

Per travalicare l’orrore dello spazio senza fondo e senza uscite si devono creare dei riferimenti limitativi, interiorizzarli, per superare la sensazione intollerabile della "restrizione senza restrizione" occorre immaginare nuove barriere, limiti, regole, codici altri di referenza spazio-temporale. Gallo ritiene che è indispensabile che l’ordine, la norma, la legge si tramutino in scansione dei giorni, in vincoli interiori inscritti in una rigorosa autodisciplina, capace di configurare l’autogestione della pena. Il suo tempo. Al detenuto è chiesto di farsi regola esso stesso, regola di se stesso, contro se stesso.

E i detenuti si sentono mutilati, sia nel senso che sono costretti all’immobilità sia nel subire la lentezza burocratica, una paralisi che limita l’azione personale. Vivono in una condizione fisica artificiale, dove le relazioni spaziali e temporali sono costrette. Dove l’interazione fra corpo e mente subisce modificazioni negative. Il soggetto ne è consapevole e odia questa sua dipendenza, questa umiliante regressione, ma, per sopravvivere, deve usare proprio quei servizi che sono parte integrante della sua reclusione, della sua menomazione fisica.

Per reagire alcuni sottraggono il corpo, ad es. usando lo strumento dello sciopero della fame, altri sottraggono la mente, creando una "normalità nell’anormalità". E dentro le mura del carcere la persona si rivela capace di resistenze che si traducono in nuove forme di bisogno di tenerezza, di innamoramento e di ironia, di cura di se stessi, del proprio aspetto, di forme alternative di comunicazione, e anche, purtroppo, di cadute nella malattia.

La resistenza è la consapevolezza dei propri diritti e la volontà di esprimersi pubblicamente, è il desiderio di comunicare agli altri il proprio disagio, il proprio dolore, di rendere pubblico il diritto a esserci. È un corpo "rituale", una metafora quello del detenuto, un corpo da trasfigurare, simbolo potente di una differenza. "I corpi dei detenuti sono più belli di quelli dei loro guardiani, corpi come sfide, come cura del se, come riappropriazione; per il prigioniero il corpo reale è un territorio di resistenza: si apre l’abisso della fisicità e inizia la costruzione metaforica del proprio corpo.

Ma ancora, il carcere alimenta l’ennesimo paradosso tanto che le reazioni di molti detenuti si muovono lungo le direttrici imposte dal sistema della sofferenza legale: da una parte un’implosione nervosa (esaurimento, insonnia, nevrastenia, ipersensibilità, autolesionismo), dall’altra un’esplosione (aggressività, ribellione, contrapposizione, e raramente, idealizzazione del proprio ruolo di deviante).

 

Il bisogno di salute in carcere

 

Ricerca del Ministero della Giustizia francese, affinché "fosse realizzata una analisi approfondita delle relazioni esistenti, in termini di causa ed effetto, fra le condizioni di vita in carcere e il manifestarsi o l’aggravarsi delle patologie più frequenti, riscontrate nel contesto penitenziario", Il lavoro è stato condotto somministrando ai detenuti un questionario per registrare le impressioni del loro stato presente riguardanti: modificazioni della sensibilità, della percezione di se stessi e del mondo, problemi e malesseri relativi ad una intimità turbata. I risultati sono poi stati messi a confronto con un gruppo sociologicamente affine ai reclusi ma in stato di libertà.

I sintomi riscontrati nella popolazione dei detenuti sono:

 

Nello stato di detenzione tre patologie sono sovra-rappresentate: la dentaria, la dermatologica, la digestiva. Al momento dell’ingresso la patologia digestiva segue immediatamente quella dermatologica, a pari grado con la otorinolaringologica e polmonare; dopo sei mesi le affezioni della pelle diminuiscono di numero, le turbe dell’apparato digerente si associano a disturbi delle vie respiratorie (28%) ponendosi al secondo posto dopo le patologie dentarie.

In Italia, secondo dati ufficiali, (riferiti al periodo 1 gennaio 1999 - 20 settembre 1999) le persone detenute erano circa 50.000, contro la disponibilità di 35.000 posti letto. Del totale 13.000 sono extracomunitari, 15.000 tossicodipendenti, 2.500 sieropositivi per HIV, oltre 4.000 i sofferenti di turbe psichiche anche molto gravi. Le patologie infettive, psichiatriche e gastroenterologiche sono quelle maggiormente diffuse.

Da sottolineare che le patologie dell’apparato cardiovascolare colpiscono soggetti di età relativamente più bassa rispetto alla società esterna (40-50 anni). Frequenti sono anche le malattie osteoarticolari e le bronco-pneumopatie croniche ostruttive (la maggioranza dei detenuti consuma in media dalle 20 alle 40 sigarette al giorno). Di difficile gestione sono pure le malattie del ricambio e metaboliche, come il diabete mellito di tipo I e II che comportano l’osservazione di un determinato regime di vita (dieta, movimento, autogestione dei farmaci).

Predominano, fra le patologie infettive, le epatiti virali non A e l’infezione da HIV, in diversi stadi. Altre malattie sono la scabbia, la dermatofitosi, la pediculosi, l’epatite A e la tubercolosi. Le sintomatologie associate di frequenza ad eziologia infettiva sono febbre e diarrea.

L’AMAPI stima in circa 8500 i detenuti affetti da epatite. Sono da considerare preoccupanti pure i dati inerenti la tubercolosi, infatti nel 1998 sono stati segnalati 250 casi. Di contro la somministrazione dei farmaci di routine avviene entro poche ore o al massimo un giorno dopo la richiesta. Secondo un’indagine di Antigone gli psicofarmaci sono la categoria maggiormente somministrata, seguiti da antidolorifici, antinfiammatori, anti-ipertensivi e antibiotici. Questa graduatoria rimane quasi simile in tutti gli istituti visionati, ciò che differisce è la quantità: la somministrazione di psicofarmaci, anti-infiammatori e antidolorifici varia da percentuali del 70 -80% fino al 20 - 30% sul totale dei medicinali distribuiti.

Con Antigone si riflette che "È difficile comprendere quanto l’uso massiccio di psicofarmaci, sia la risposta ad un disagio psichico diffuso nel carcere oppure sia una strategia di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno, soprattutto nelle sezioni di tossicodipendenti".

 

Patologie della reclusione

 

Nel doversi rapportare ad una "istituzione totale", per usare la nota definizione di Goffman, il soggetto deve abbandonare il suo modo di essere, le sue cose, il suo modo di pensare e di fare, cioè il modo di rappresentarsi a se stesso e agli altri, Dovrà ridefinirsi, non solo rispetto se stesso ma anche verso i nuovi compagni. La cornice normativa della rappresentazione è data dalle regole dell’istituto e dal sistema simbolico vigente. Il detenuto è spogliato del suo passato, gli è dato un presente obbligato, il futuro è la sua rieducazione o viceversa?

Avviene quindi questa spoliazione del soggetto all’ingresso in carcere, cioè sono recisi i contatti con il ruolo sociale che deteneva "prima"; viene privato degli effetti personali, cioè gli sono presi gli oggetti che lo potrebbero identificare (la perquisizione è una prassi normale di controllo e di disidentificazione); di uno spazio personale; della capacità di decidere autonomamente, in quanto altri decidono per lui; e impara a fare la "domandina", intesa nel suo "alto valore pedagogico e trattamentale"!. Si realizza in questo modo la totale dipendenza del soggetto - oggetto nei confronti dell’istituzione. Questa dipendenza psicologica e fisica si ripercuote nell’equilibrio della persona creando scompensi anche di grave entità.

Riportiamo i dati di una ricerca condotta sulle patologie immediatamente visibili raccolte durante interviste con detenuti in unità speciali. Le patologie più frequentemente riscontrate sono:

Si ritiene però che il carcere ordinario produca gli stessi segni di sofferenza, anzi sembra quasi che il regime ordinario aumenti i livelli di stress dei detenuti in quanto richiede loro un incessante autocontrollo, "basandosi sull’autogestione della pena e sull’osservazione del comportamento, non che sulla verifica continua del processo rieducativo [...]

I detenuti possono sopravvivere soltanto riducendo la distanza tra le proprie aspettative e la realtà della loro esistenza. Lo stress è insomma provocato. in larga misura, dall’indeterminatezza del regime, dalla frustrazione, dal gioco al ribasso delle proprie aspettative, che il regime impone incessantemente.

Si possono aggiungere come effetti della detenzione anche:

 

Da sottolineare che in Italia è stata condotta una sola indagine ad opera dell’Ufficio studi e ricerche del DAP, i risultati non sembrano ne invalidare ne confortare quanto già detto, tanto che si concludeva" Anche se la detenzione raramente riesce a rieducare il condannato, nella tragica realtà dei nostri istituti penitenziari, è inaccettabile sia sul piano dei diritti dell’uomo, che anche su quello meramente utilitaristico dell’interesse della società, che essa possa contribuire a deteriorare alcuni detenuti, colpendo in modo differenziale e discriminante proprio i soggetti meno difesi nella massa".

 

Area psichiatrica

 

L’area psichiatrica rappresenta la vera emergenza degli istituti penitenziari italiani, in quanto sono il principale contenitore del dilagante disagio mentale e la cartina tornasole di una marginalità sociale costituita da tossicodipendenti, prostitute, nomadi, vagabondi alcolisti, barboni ed extracomunitari. Il carcere è una comunità chiusa che attraverso la segregazione esprime simbolicamente e fisicamente la funzione di controllo sociale sulle condotte devianti sia di tipo sociale che devianza psicopatologica. Si ritrovano soggetti affetti da parafilie di vario genere come transessuali. travestiti, omosessuali, pedofili che, spesso, non vengono seguiti dai servizi psichiatrici e dall’assistenza sociale territoriale.

Il carcere diventa cosi l’ambiente rivelatore del disagio e spesso il primo momento "ufficiale" di incontro di questi soggetti con le istituzioni. Si è quindi trasformato in una struttura preferenziale di raccolta e reclusione delle persone con problemi psicopatologici, una istituzione portatrice di un’ambiguità dialettica, della contraddizione tra assistenza e repressione. Il fenomeno della "porta girevole" (revolving - door syndrome), tipico nei servizi territoriali psichiatrici, si ritrova fra carcere e territorio, "in uno scambio continuo, perverso e inarrestabile di pazienti (trasgressori - colpevoli), per i quali il contenimento diventa spesso, e soltanto, un mezzo di segregazione e di ulteriore emarginazione".

Per Giordano però esiste una "psicopatologia da carcere [...] che non può che trovare in carcere, in situazione cioè di forte e costante controllo, di limitazione di libertà e sofferenza, il prodromo talora indispensabile di una cura [...] sta a noi, al nostro controllo medico, psichiatrico, civile, far si che costoro, in carcere, non trovino tanto quella punizione che soddisfa soltanto le pulsioni vendicative della società e degli operatori, bensì una pena che è nostro compito restituire al suo autentico valore medicinale, al suo valore di cura, di cura per la società proprio perché cura il soggetto". Insomma "veri e propri coatti della pena"!

Come vediamo esistono ancora pareri sostenenti l’idea che la pena abbia, intrinsecamente, un valore medicinale! Esiste, di fatto, in ambienti psichiatrici, un largo consenso per tali costruzioni ideologiche!

I disturbi psicopatologici alla base dei comportamenti considerati abnormi e socialmente pericolosi sono soprattutto disturbi di personalità, presenti in carcere in modo significativo, con manifestazioni di impulsività ed aggressività. Questa condotta, di incontrollabile esplosione emotiva, è acuita dalla carcerazione, rendendo molto problematica la possibilità di instaurare rapporti interpersonali.

L’imprevedibilità delle reazioni emotive dei soggetti fa si che possano degenerare con caratteristiche manipolative e distruttive, soprattutto quando l’aggressività è usata per controllare l’ambiente circostante. Questi comportamenti possono legarsi a strutture di personalità asociali o psicopatiche, con caratteristiche di incapacità di comprendere le emozioni che la loro distruttività provoca negli altri e di incuranza delle conseguenze delle loro azioni, La droga e l’alcool posso essere dei fattori aggravanti dei disturbi di personalità mediante l’azione biochimica di disinibizione sui centri nervosi superiori.

I pazienti con disturbi di personalità difficilmente trovano un ruolo sociale che sarebbe essenziale per iniziare a costruirsi una propria identità. Essi traggono benefici dai legami sociali e dal sostegno e continuano a perdersi se sballottati fra carcere e territorio senza un punto di riferimento.

In carcere esiste la compresenza di molti fattori determinanti uno stato di sofferenza psichica: angoscia, ansia, impotenza, promiscuità, rapporti sociali imposti, espropriazione di ogni riservatezza e di intimità. Si vive sempre una patologia fatta di solitudine, di emarginazione, di sradicamento, di perdita d’identità. Ma anche problematiche legate a pregresse situazioni di disagio familiare e sociale, ove sono venuti meno modelli di identificazione strutturati, quali la famiglia, o dove all’interno di essa hanno subito delle esperienze a carattere traumatico dove la violenza è comune denominatore. Per tali individui il carcere sembra rappresentare la tappa obbligata di un percorso di marginalità destinato a consolidare la propria identità negativa.

Nell’articolo del New York Times (5 marzo 1998) dal titolo: Prisons Replace Hospitals for the Nation’s Mentally, vengono riportati dati impressionanti: su due milioni di detenuti nelle carceri americane, in circa il 10% sono stati riconosciuti disturbi psicotici. Per non parlare dei gravi disturbi di personalità.

In Italia per quanto riguarda le tipologie di disagio mentale sono stati individuati sei campi che interagiscono e, spesso, si sovrappongono, pur mantenendo la loro autonomia:

 

Come si rileva, il quadro che risulta dall’analisi e dalla sovrapposizione di tali campi è estremamente complesso e richiederebbe un intervento mirato alle singole esigenze soggettive. Brandi sottolinea che il rischio è grave: la distonia che si genera nei processi psichici (di percezione, di rappresentazione, di ideazione), di per sé grave e interiore, comporta, se rappresentata all’esterno, la possibilità di azioni lesive improvvise. La propensione all’azione autolesionista, anche grave e irreversibile, ha una tale incidenza in ambiente carcerario, da indurre a considerare questo problema come specifico.

Per quanto riguarda le cure possibili non è possibile offrire una disamina adeguata della problematica, riportiamo solo però che nel Centro di osservazione neuropsichiatria del centro diagnostico e terapeutico del carcere di S. Vittore la delegazione del CTP, durante la visita, ha riscontrato che "nei due mesi precedenti erano stati usati quattro volte i mezzi di contenzione. Per questo scopo esisteva una cella specifica attrezzata, con un letto dotato di cinghie di cuoio destinate a fissare le caviglie e i polsi del paziente.

Lo psichiatra responsabile ha affermato che questi mezzi venivano utilizzati soltanto in casi di urgenza clastica e in associazione con farmaci, e che in queste occasioni veniva istituita una sorveglianza stretta da parte del personale.

Il CTP desidera sottolineare che, a suo avviso, il ricorso a questi mezzi di contenzione per controllare un paziente violento e afflitto da turbe mentali è difficile da giustificare, se non in casi molto rari. Un paziente di questo tipo dovrebbe piuttosto beneficiare di un trattamento in cui vengano integrati una stretta sorveglianza e un sostegno appropriato, associati, se necessario, alla somministrazione di calmanti. Naturalmente ogni mezzo di contenzione fisica applicato dovrebbe essere abolito al più presto; a questo proposito, va notato, che in ognuno dei quattro casi appena ricordati la contenzione fisica era stata applicata per tutta la notte.

Gli ispettori sollevano poi il caso di un detenuto che stava da ormai due mesi in unità di isolamento. Il suo stato mentale era controverso: diversi soggiorni successivi nella vicina unità di pre - osservazione psichiatrica non erano bastati a permettere ai medici di chiarire il suo caso. Nel dubbio la presa in carico di un tale detenuto dovrebbe essere attuata in ambiente psichiatrico, piuttosto che in un’unità di isolamento" (in corsivo nel testo).

Come si rileva anche dalle risposte degli ispettori del CTP sembra del tutto normale che il carcere debba curare e contenere i soggetti - pazienti alla stregua di un buon vecchio ospedale psichiatrico. Sembra non sfiorare il dubbio che la sanitarizzazione della devianza non sia una risposta adeguata al problema! Gli ispettori non si pongono neppure il problema della possibile incompatibilità dello stato di salute del soggetto con le condizioni di cura offerte dal centro clinico.

Un’altra importante tematica correlata all’infermità psichica è rappresentata dalle perizie psichiatriche: molti casi giungono al giudizio da "sani" mentre, in realtà, celano patologie che riducono in modo significativo la capacità di intendere e volere. Non è raro, infatti, rilevare una discordanza tra il parere espresso dai periti ed il giudizio emergente dalle valutazioni degli psichiatri penitenziari che seguono solitamente i casi per un periodo apprezzabilmente più lungo e all’interno di una diversa condizione di conoscenza qual è la relazione terapeutica. Il rilievo non è senza valore se si consideri che non raramente la patologia psichiatrica è, se non causa del reato, almeno una importante componente e tale non è evidenziata in fase giudicante perché il soggetto è in attesa di giudizio o perché, incosciente del proprio disagio, viene in contatto con esso proprio nell’ambiente carcerario.

Da sottolineare l’importante e contraddittorio, a volte, ruolo vicario della psichiatria rispetto la giustizia: è "guardiana su un versante della pulizia clinica, garante su un altro della filantropia dell’assistenza [...] deve garantire la definizione e dislocazione [...] di quel residuo istituzionale appunto, che è in quanto tale pericoloso". È una posizione pericolosa per la psichiatria ma soprattutto per coloro che devono ricorrere, da ristretti, alle cure degli specialisti. Perché il rischio che si può correre, ancora una volta, consiste nell’individuazione di una forma "morbosa e virulenta", denominata psychopathia criminalis, ovvero "...un’affezione della quale i democratici inveterati soffrono in maniera congenita e dalla quale i pensatori, gli ideologi e gli artisti in genere vengono, di volta in volta, aggrediti".

 

Area infettivologica - immunologica

 

Le malattie infettive sono un problema importante in tutte le comunità chiuse, soprattutto nelle comunità penitenziarie in cui si verificano situazioni abitative, alimentari e comportamentali che ne facilitano la diffusione e l’acquisizione. È rilevante segnalare che l’eterogeneità della provenienza della popolazione detenuta costituisce un rischio rilevante per l’importazione e la successiva diffusione di patologie non presenti o non più attuali e comuni nel nostro Paese.

L’analisi delle patologie infettive più frequentemente segnalate in carcere indicano che:

 

Analizziamo in particolare:

 

Infezione da virus dell’epatite. L’infezione da virus dell’epatite è la forma infettiva più frequente. Colpisce con maggior frequenza i soggetti tossicodipendenti nei quali è spesso associata all’infezione da HIV. I canali di trasmissione possono essere diversi a seconda dell’agente patogeno, ma, in generale, l’epatite virale predilige le vie ematiche sia per via parenterale (inoculazione di sangue e suoi derivati, uso di aghi, siringhe, strumenti chirurgici, trapianto di organi infetti) che attraverso la lesione non visibile della cute o della mucosa oro-faringea, uso di articoli da toilette, contatto sessuale, graffi, morsi, trasmissione fetale.

Ai fini della prevenzione e cura è necessario distinguere gli individui:

Attualmente tra gli esami di screening infettivologico, all’atto di ingresso, non è, purtroppo, compresa la ricerca obbligatoria dei diversi agenti virali. La difficoltà di diagnosi risiede anche nelle caratteristiche subdole della patologia ed un sospetto di infezione sussiste solo per quelle categorie di soggetti come i tossicodipendenti che costituiscono il maggior gruppo a rischio. Ma in definitiva i comportamenti tra i detenuti (l’uso in comune di oggetti personale) e il cronico sovraffollamento rendono difficile l’opera di prevenzione.

 

Infezione da HIV. L’infezione da HIV è la malattia più allarmante. L’agente eziologico responsabile della patologia è un virus il cui decorso infettivo può avere diverse manifestazioni cliniche. Inoltre, in molti soggetti l’infezione da HIV può provocare la produzione di anticorpi senza alcuna manifestazione di sintomi clinicamente rilevanti.

Parimenti, in assenza di test, la presenza dell’AIDS può essere testimoniata dall’esistenza di patologie (epatiti, TBC, dermatiti etc.) che generalmente accompagnano il decorso della malattia.

La quasi totalità dei casi di AIDS viene ricondotta ad una serie di gruppi cosiddetti a rischio: gli omosessuali, i tossicodipendenti per via endovenosa, gli emofilici o politrasfusi ed i soggetti aventi rapporti sessuali con gli appartenenti ad uno dei predette categorie (l’ambiente carcerario ne offre una significativa rappresentanza).

Tutti i soggetti sieropositivi, indipendentemente dalla manifestazione clinica della patologia, possono trasmettere il virus: tale fattore rappresenta il motivo principale di allarme nell’attività di prevenzione del contagio che si può definire, per le caratteristiche ambientali, problema specifico del carcere, Il dilagare dell’infezione ha, in pratica, trovato l’istituzione impreparata, a contrastare la diffusione per fattori propri ambientali e strutturali "predisponenti": sovraffollamento, mancanza di prevenzione, promiscuità, circolazione della droga, comportamenti sessuali a rischio, tatuaggi, uso in comune di articoli personali.

Un detenuto affetto da AIDS, o quantomeno da una forma minore, comporta numerosi problemi di gestione per l’Amministrazione penitenziaria, sia a livello di prevenzione che di cura. Il soggetto deve essere periodicamente sottoposto a complessi accertamenti: per monitorare l’evoluzione della patologia e gli specifici interventi sanitari e farmacologici; per evidenziare le frequenti infezioni (toxoplasmosi, candida, etc.) e malattie (epatiti, TBC, sviluppo di neoplasie tipo sarcoma di Kaposi) alle quali gli affetti di HIV, in quanto immuno-deficenti, sono esposti.

L’Amministrazione ha, per tempo, dichiarato la sua impotenza a gestire la patologia. Concorde anche la Commissione Nazionale della lotta contro l’AIDS nell’affermare che "il permanere in ambito carcerario comporta per il malato di AIDS, il rischio di una riduzione del tempo di sopravvivenza, e per gli operatori rischi di contagio delle patologie ad alta trasmissibilità". L’opera di prevenzione è fondamentale come lotta a questa patologia ma si dovrebbe conoscere l’esatta dimensione del fenomeno, ma in base alla legge n. 135 del 5.6.1990, nessuno può essere sottoposto al test in questione senza il suo consenso, "se non per necessità cliniche nel suo interesse". Il risultato è che la maggior parte della popolazione detenuta si rifiuta di sottoporsi allo screening infettivologico e solo la sua condizione personale (tossicodipendente, prostituta, omosessuale) può indurre, nel personale medico, il sospetto della presenza della malattia.

 

Infezione da bacillo di Koch (tubercolosi). È ormai certa la ricomparsa di casi di tubercolosi nella popolazione detenuta39. La tubercolosi è una malattia infettiva, infiammatoria e cronica, in genere localizzata ai polmoni ma che può colpire qualsiasi organo (è comune, infatti, l’infezione dei reni che spesso si estende alla vescica e ai genitali).

L’agente patogeno responsabile è il bacillo tubercolare che si trasmette per inalazione di aria inquinata da micro - goccioline di secreti infetti, ma non è escluso che possa trasmettersi per contatto con urina infetta. La resistenza individuale alla tubercolosi dipende dallo stato di salute e dalle condizioni generali di vita: un cattivo stato fisico, un ambiente affollato ed insalubre, la malnutrizione ed altre condizioni sfavorevoli possono diminuire le difese corporee e favorire l’insorgenza della malattia.

Come per le altre patologie diffusive, il problema principale nel carcere è costituito dalla condizione di promiscuità e dalla mancanza di interventi organici in via preventiva attraverso la programmazione di esami radiologici e clinici. In teoria il malato dovrebbe rimanere in isolamento o comunque beneficiare di una condizione ambientale migliore. Esiste anche in questo caso la difficoltà di attuare uno screeening infettivologico verso soggetti (ad es. extracomunitari) restii a sottoporsi ai relativi test.

 

L’area tossicologica

 

I tossicodipendenti rappresentano nel carcere una larga fetta della popolazione complessiva, nel rapporto di Antigone al 31 dicembre 1999 erano 15.097, il 29,26% sul totale della popolazione detenuta, cui si sommano i 2.392 tossicodipendenti in "affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari".

Negli istituti questa numerosa presenza comporta problematiche a vari livelli: gestionali, in quanto il soggetto è prevalentemente organizzato intorno all’opzione tossicomane; preventivi poiché portatore delle più svariate patologie di tipo infettivo che abbiamo appena analizzato: Aids, tubercolosi, epatiti, etc; inoltre il tossicodipendente è un soggetto che abbisogna non solo di cure organiche ma anche di supporti psicologici se non talvolta psichiatrici. Nella quotidianità la tossicodipendenza richiede un’assistenza completa a partire da quella farmaco logica (somministrazione di metadone} per arrivare ad una presa in carico in toto del soggetto, nella quale gli aspetti di tipo psicologico e sociale siano presenti in maniera determinante e qualificante.

È importante inoltre che il tossicodipendente non sconti la pena in carcere come un normale detenuto, che gli vengano concesse le misure alternative per realizzare la possibilità di un vero recupero in una comunità terapeutiche. Purtroppo, nonostante le buone intenzioni, il problema tossicodipendenza in carcere rischia di prolungarsi fin tanto che non si attui una vera politica sanitaria che ottenga come primo risultato la scomparsa della droga negli stessi istituti.

Accanto alla tossicodipendenza va annoverata la categoria dei "farmacodipendenti", fortemente rappresentata. Gli antidolorifici, gli ansiolitici egli antidepressivi accentuano questo problema con conseguenze incalcolabili in quanto sono capaci di agire a livello cerebrale e di modulare, cosi, la risposta comportamentale, specie se, come spesso succede, il detenuto, crea miscugli terrificanti con farmaci, stupefacenti e alcool. Inoltre si assiste all’abuso di farmaci impiegati diversamente dall’indicazione terapeutica (o in assenza, quando si tratta ad es. di agire non sulla malattia ma su di una modificazione dell’umore, dello stato del soggetto). I prodotti incriminati sono costituiti da:

ipnotici (barbiturici), tranquillanti (benzodiazepine), sedativi maggiori (neurolettici). I disturbi, simili a quelli corre lati all’uso di stupefacenti, sono costituiti da:

La soluzione alla farmacodipendenza è primaria nella battaglia contro le forme di dipendenza nel carcere. Difatti questi soggetti assumono spesso farmaci, in dosi e combinazioni tali da provocare una risposta chimica simile a quella prodotta da una sostanza stupefacente. In secondo luogo il problema farmacologico è legato alle varie sindromi di detenzione di cui abbiamo già discusso e alla mancanza di risposte adeguate ai bisogni effettivi dell’individuo. Il carcere dunque oltre ai malati mentali, alle devianze sessuali, sforna anche delle persone caratterialmente deboli e farmacodipendenti.

Il numero complessivo dei soggetti alcol-dipendenti, ovvero certificati come tali, è invece irrilevante, Antigone segnala 671 detenuti, pari all’1,3% del totale dei detenuti, cui vanno aggiunti i 124 che usufruiscono dell’affidamento in prova in casi particolari, come per i tossicodipendenti.

 

Intervista ad una infermiera

 

Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (La città vecchia, Fabrizio De Andrè). Rizzini presenta questo squarcio nel quartiere più buio della città dicendoci che: "Questo è il racconto di P.C. ex infermiera libero professionista m un carcere dell’Italia settentrionale, che sperava di fare l’infermiera tra gli uomini e con gli uomini in una realtà diversa da quella che la maggior parte dei suoi colleghi aveva scelto una volta finita la scuola".

P.C. che alla fine del suo racconto dice "io stavo alle regole perché avevo bisogno di lavorare" ma è lei la prima a non crederci quando afferma "se il gruppo infermieristico fosse unito si potrebbe anche pensare con un po’ di utopia di costruire e cambiare qualcosa". Rizzini suggerisce di provare a leggere ciò che ha registrato e trascritto, come se P.C. fosse li davanti a voi.

L’autore sottolinea che ha cercato di fare pochissime correzioni, solo l’essenziale, per permettere una lettura scorrevole e il più possibile comprensibile e per il resto ha lasciato tutto come P.C. gli ha chiesto di fare perché "altrimenti è inutile".

Nell’intervista P.C. ha chiesto di non rivelare la sua identità, perché "è meglio così e perché non è detto che se io sono delusa della mia esperienza con la burocrazia, la gerarchia e il potere lo siano anche altri infermieri penitenziari...e poi non è detto che nelle carceri sia così come ho detto io. Mi auguro che altri colleghi abbiano più autonomia".

"... comunque, se tu mi chiedi come l’infermiere in carcere si approccia al reinserimento e al recupero del carcerato, io ti dico chiaramente che non faccio nulla, che non ho la possibilità di fare nulla... come l’infermiere si pone nei confronti dell’emarginazione... io non ho nessun potere di gestione e di progettazione degli interventi perché il mio è un lavoro esclusivamente di esecutore.

Io do la pastiglia, sempre do del lei e non ho nessun tipo di rapporto con chi è nella cella perché ho comunque sempre vicino a me l’agente penitenziario che mi controlla e ci controlla, e poi, comunque, il mio pormi non è sicuramente uguale a come si può porre un infermiere in una struttura sanitaria pubblica o privata, perché per me che ero infermiera in carcere con un contratto da libero professionista era sempre conveniente farsi gli affari propri, senza esporsi troppo, perché comunque il contratto mi veniva rinnovato anno per anno e c’era sempre il rischio che non mi venisse rinnovato, con il rischio di rimanere a casa, come d’altronde succede per tutti quei lavoratori precari che per paura di essere licenziati spesso non hanno altra scelta che stare zitti e spesso subire molestie morali e l’abuso di potere...e tu capisci bene che quando si ha bisogno di lavorare è sempre meglio farsi gli affari propri; per un infermiere libero professionista è diverso che per un infermiere ministeriale che viene assunto con un concorso e poi c’è sempre e comunque.

Il fatto che vai contro a mille, duemila, tremila persone quindi te ne stai nella tua piastrella e vivi lì, non ti muovi; non sei protetto da nessuno, non c’è una capo sala... nella mia realtà era così: c’era un direttore sanitario medico che c’era e non c’era e quando esponevamo delle problematiche infermieristiche eri da solo e se su sette colleghi sei da solo stai nella tua piastrella, non ti muovi ed esegui.

Quando vai a lavorare in carcere sei una infermiera ma sei una infermiera che non fa quello che gli ha insegnato la scuola. Quello che ti hanno insegnato non lo fai perché non lo puoi fare, non hai autonomia decisionale, sei un esecutore. Ti trovi al di là delle sbarre dei tuoi coetanei a cui viene d’istinto dare del tu e sai che non lo puoi fare, devi sempre avere e dare rispetto e sottolineare quando loro non te lo danno perché poi se ne approfittano. Questa è la realtà.

Ti dico che io non avevo ne cartellino, ne nome sulla divisa eppure loro sapevano il mio nome, il cognome, dove abitavo e cosa facevo, se ero sposata...quindi puoi capire che, se io gli permettevo anche di darmi del tu, come è capitato, quando davo il metadone diventava naturale chiedertene due ml in più, tre ml in più... quindi avere rispetto vuol dire che sanno che con te non possono fare determinate cose.

Adesso, dove lavoro, se la capo sala ti sente dare del tu non te la mena più di tanto; in carcere le guardie ti chiedono se lo conosci, come mai ti chiama per nome e tutte queste cose; in certe carceri italiane addirittura durante la somministrazione della terapia non devi guardare in faccia il detenuto e anche se nella realtà dove lavoravo io questo non succedeva, comunque non ti potevi rivolgere a loro con espressioni del tipo; "buongiorno, dormito bene questa notte?" ma solo con "buongiorno", "buonasera", ‘pastiglie" e "mi dia il bicchiere", sempre in maniera molto asettica.

In alcune case circondariali so che addirittura i carcerati non possono e non devono nemmeno guardarti in faccia ma stanno con gli occhi bassi perché è una loro regola di comportamento all’interno del carcere, perché comunque non ti devono riconoscere.

Non ti devono riconoscere fuori perché a me è capitato di incontrare ex detenuti a cui non ho fatto niente ma se gli avessi fatto qualcosa...e poi il problema grosso è che tu da sola devi somministrare la terapia a ottanta, cento persone e devi fare in fretta e comunque non avresti il tempo di fermarti...e poi con il metadone è un casino perché tu lo dai ma c’è chi lo nasconde, lo tiene in bocca, fa finta di prenderlo e lo sputa... una serie di cose a cui poi fai l’abitudine...ci fai l’occhio e l’orecchio e vai di corsa come un automa.

Le urgenze che ho visto quando lavoravo sono state un infarto, qualcuno che si è mangiato una lampadina per tentare il suicidio o chi si tagliava le vene ma lo faceva passandosi sopra il limone in modo che il sangue possa coagulare e quindi sanno benissimo che poi alla fine non vanno incontro ad un vero e proprio pericolo di vita...lo fanno per attirare l’attenzione ed essere spostati.

Poi ho visto gli scioperanti della fame che arrivano ad un livello tale che si collassano e quando succede viene avvisato l’agente penitenziario che a sua volta chiama in infermeria dove si avvisa il medico che va alla cella con l’infermiere e valuta se è il caso di trasportarlo in infermeria o no, e passano comunque sempre circa dieci minuti, se sei fortunato, anche perché non sempre il medico arriva con le scale ma deve anche prendere tre o quattro ascensori. Dove lavoravo io eravamo undici.

Quattro infermieri e sette generici già in pensione. Il rapporto era pessimo perché comunque anche se gli spiegavi le cose per fargli capire che la responsabilità di quello che facevano era comunque nostra, facevano apposta a fare il contrario e se ne sbattevano perché ti dicevano che loro, non tutte certo, non ne avevano per le palle di essere comandate da una ragazzina... loro erano tutte ex qualcosa in pensione e scherzi, "che una bambina ", così mi chiamavano, "che ha finito la scuola da poco e che può essere mia figlia mi viene a dire cosa devo fare".

Quando gli dicevi "guarda che non puoi scaricare il gardenale perché la legge non te lo permette e soprattutto non lo puoi dare di tua iniziativa" si mettevano a ridere o magari si incazzavano insultandoti e non sempre se tu gli davi la compressa da distribuire lo facevano o comunque, se lo facevano, lo facevano male dicendoti "ho dato la compressa" e magari poi la buttavano. Pensa che quando gli è stato detto che, compatibilmente con i turni, non potevano toccare gli stupefacenti ed avere la chiave della cassaforte ci è mancato poco che una infermiera venisse picchiata.

Tutto questo era ancora più difficile da gestire mancando la figura della capo sala... noi dipendevamo da un medico che era il direttore sanitario e tra noi infermieri si tentava di avere una linea comune di lavoro, anche perché tutti parlavano professionalmente la stessa lingua, ma poi, essendo pochi, quel poco che si riusciva a costruire veniva immancabilmente distrutto dalle generiche anche perché gli infermieri erano pochi e non potevano garantire la presenza per ogni turno di conseguenza la pianificazione dell’assistenza infermieristica non esisteva perché eravamo troppo diversi noi e loro.

Pensa che quando io sono arrivata in carcere il passaggio delle consegne non esisteva mica, era già tanto avere un saluto perché loro erano abituate a lavorare tra di loro, e quando siamo arrivati noi infermieri ci hanno visto come dei nemici da combattere...come quelli che hanno studiato e vogliono fare i maestri, "noi non abbiamo mica studiato ma ce la siamo sempre cavata, quello che conta è l’esperienza, cara mia".

Eravamo troppo diversi per pensare ad una pianificazione dell’assistenza, sempre che in carcere si possa pianificare qualche cosa come in una corsi d’ospedale o come ci hanno insegnato a scuola; ci siamo noi e ci sono loro; le generiche, gli agenti penitenziari, i medici e spesso i detenuti che, bisogna dirlo, per la maggior parte non gliene frega nulla di essere recuperata, neanche quando stanno male; e poi il problema è che se il gruppo infermieristico fosse unito si potrebbe pensare anche con un po’ di utopia di costruire qualcosa, ma da solo assolutamente no, perché comunque qualsiasi proposta deve passare attraverso mille teste che devono capire e approvare; devi proporre al direttore sanitario,fartela approvare, poi passa alla approvazione della direzione del carcere... per carità, tutte cose giuste, però... sempre hai a che fare con persone che di infermieristica non hanno niente a che vedere... persone esterne che mettono sempre davanti a tutto la sicurezza... ripeto, è giusto per carità, però... ad esempio quando sono arrivata io non esistevano i registri dello scarico degli stupefacenti e nemmeno del passaggio delle consegne, o meglio, c’erano ed erano una cosa obbrobriosa; non firmati e non controllati, quindi mi sono dovuta mettere quasi a pregare per fare capire che si rischiava grosso.

Tutte le volte dovevo dire "guardi dottore che non si può fare cosi perché per legge se succede qualcosa "... mesi e mesi per fare capire che le cose andavano cambiate. Io posso spiegare come si deve fare ma se manca la cultura... se lui vuole ascoltarmi e ha cervello, mi dice "ok, va bene", altrimenti...

Penso che il carcerato malato viene si considerato come un malato ricoverato in una struttura pubblica, cioè una persona che ha un bisogno che va soddisfatto e risolto in quel momento, però è comunque sempre un detenuto.

Se io al malato normale do una compressa di Plasil non ho nessun problema, ma io so che se invece do una compressa di Plasil ad un detenuto, con quella compressa ci può fare di tutto. I detenuti sniffano l’Aulin, di conseguenza se in ospedale dico "ma sì, la prenda dopo oppure la prenda quando mangia" non posso fare la stessa cosa con un detenuto perché usano qualunque cosa per farsi del male o per essere trasferito o al centro dell’attenzione.

È sempre un detenuto e ci sono detenuti che sono persone ragionevoli, ma c’è gente come gli albanesi o i marocchini che non hanno la nostra mentalità, o hanno esigenze e una cultura diversa... come gli altri detenuti italiani... come noi.

Mi chiedi come l’infermiere penitenziario si pone nei confronti dell’emarginazione sociale e morale di chi è in carcere? Non ha nessuna possibilità di autonomia perché a livello di contatti è deludente, a livello di interventi zero...nel senso che io vedo l’emarginazione del tunisino ma non ci posso fare niente perché io, come infermiere, non ho nessuna possibilità di pianificare insieme, che ne so, all’infermiere del SERT o all’educatore... viene fatto tutto dal direttore sanitario che ha contatti con il medico.

È il medico che discute con il direttore sanitario e questi, a sua volta, con il direttore del carcere. L’infermiere in definitiva... vuoi che te lo dica chiaramente? Non interviene e no ha nessun ruolo se non quello di esecutore materiale e basta. Se lavorando in ospedale io so che per la vecchietta è stata fatta la domanda per la casa di riposo una volta dimessa, in carcere, come infermiere, non so nulla e forse non sono tenuto a sapere nulla... è così... io eseguo gli ordini del medico senza nessuna possibilità di collaborazione e poca gestione del mio lavoro... "obbedir tacendo" come mi disse un giorno un agente penitenziario... io non ho nemmeno la possibilità di valutare se chi è in cella ha un problema grave o no.

Noi dipendiamo dal medico ed è il medico che conosce i suoi problemi e il detenuto non li viene a dire certo all’infermiere e, anche se dovesse farlo, noi non possiamo fermarci a parlare con lui come faremmo in ospedale perché comunque abbiamo sempre vicino l’agente penitenziario a cui dobbiamo sempre, anche in maniera inconscia, rendere conto. Triste? Non lo so, io stavo alle regole del sistema perché avevo bisogno di lavorare e quando ho trovato di meglio, in ospedale, più sicuro economicamente e legalmente, me ne sono andata...cosa dovevo fare?"

 

Malattie simulate e atti di autolesionismo

 

Simulazione e disturbi fittizi

 

La concessione di alcuni benefici, legati all’esecuzione effettiva della pena, è strettamente dipendente dalle condizioni di salute tanto che il detenuto, a volte, accentua o infine può inventare una malattia per ottenerli.

La simulazione è l’intenzione cosciente di ingannare, infatti il OSM-IV esplicita che "La caratteristica fondamentale della simulazione è la produzione intenzionale di sintomi fisici o psicologici falsi o grossolanamente esagerati, motivata da incentivi esterni come evitare il lavoro o un procedimento penale, oppure ottenere farmaci. In alcune circostanze, la simulazione può rappresentare un comportamento adattivo - per es. simulare una malattia quando si è prigionieri del nemico in tempo di guerra". Così le patologie assumono gli aspetti più diversi: dall’esagerazione di un sintomo o dall’insincera accentuazione fino all’autoaggravamento o addirittura all’autolesione volontaria. La simulazione delle manifestazioni cliniche più svariate può realizzarsi accusando una sintomatologia inesistente. Ne sono state distinte tre sottospecie a seconda che si tratti di una malattia:

La discriminazione fra malattia reale e simulata in una patologia organica si basa su accertamenti clinici e diagnostici "certi", questo è più difficile nella malattia psichica in quanto l’obiettività dei disturbi, per lo più comportamentali (confusione, disorientamento, alterazioni deliranti del pensiero, depressione dell’umore, autismo, alterazioni a carico degli istinti fondamentali), non è cosi clinicamente e facilmente distinguibile da una simulazione dei sintomi stessi. Molti autori concordano sulla possibilità di un inizio cosciente e non coerente della sintomatologia psicotica e di un decorso che assume poco per volta una sua progressiva autonomia e stabilità, soprattutto nei deboli di mente, in cui la carenza di critica favorisce l’autosuggestione e l’auto convincimento di essere veramente malati. Kaplan e altri autori sostengono che l’eziologia possa essere associata ad un disturbo antisociale di personalità.

In pratica il detenuto mette in atto la "pantomima clinica" di una malattia, decidendo coscientemente di imitarne i sintomi patologici e di proseguirla nel tempo, con uno sforzo continuo, fino al conseguimento dello scopo. Il tipo e la qualità della simulazione sono determinati da una serie di "abilità personali" del soggetto: dal livello intellettuale, dal suo grado di auto suggestionabilità, dalla possibilità di mettere in atto meccanismi psicofisici riflessi e di controllarli con la volontà. La simulazione diventa quindi una rappresentazione scenica che rispecchia, in modo grossolano, il concetto profano della follia.

Tale rappresentazione è teatralmente presentata con la pseudo demenza, cioè viene mostrato un grave decadimento psicofisico, ma però, nella pratica i detenuti rispondono in modo costantemente assurdo anche alle domande più semplici, e quindi clinicamente non patognomoniche, dimostrando un sorprendente deficit cognitivo non congruente al quadro clinico che volevano confermare.

Fornari ritiene che la reclusione da sola non produca un quadro psichico ma possa essere un fattore patoplastico, precipitante o slatetizzante una pregressa condizione di precario equilibrio mentale, e che possa innescare reazioni abnormi o aggravare l’esistenza di quadri psicotici preesistenti. L’analisi psicopatologica è l’unica determinante per distinguere i malati da coloro che non lo sono, al fine di garantire ai primi il diritto alla cura e ai secondi il diritto all’ascolto del bisogno e alla prevenzione affinché la simulazione non si trasformi in un disturbo psichico conclamato. Per quanto riguarda i metodi diagnostici per smascherare la simulazione Fornari ritiene possibile individuare il simulatore, almeno nel periodo iniziale.

Per l’autore il simulato re può essere individuato in quanto manifesta:

Di difficile interpretazione è la possibile situazione di un detenuto che presenta (o dichiara di avere) dei disturbi fittizi. In questo caso i sintomi vengono simulati deliberatamente e coscientemente dal soggetto. si tratta di segni fisici o psichici allo scopo di assumere il ruolo di malato, in assenza di incentivi esterni come nella simulazione. È presente pseudologia fantastica cioè raccontano bugie esagerate e sintomatologie fantastiche.

Il disturbo fittizio quando presenta, in modo predominante, sintomi fisici è noto anche come sindrome di Munchausen per i reiterati tentativi di entrare o rimanere in ospedale. I sintomi lamentati sono nausea, vomito, dolore, crisi comiziali, eritemi diffusi, ascessi, febbri inspiegabili. Il soggetto può intenzionalmente mettere sangue nelle feci o nelle urine, aumentare artificialmente la temperatura corporea, assumere insulina per abbassare la glicemia, indursi ematuria con assunzione di anticoagulanti.

Altre volte il soggetto può produrre intenzionalmente, in modo predominante, sintomi psichici quali allucinazioni, deliri, depressione, comportamento bizzarro. I pazienti si giustificano spesso sostenendo di essere stati sottoposti a fattori stressogeni. Come fattori psicodinamici riconosciuti si segnala la repressione, l’identificazione con l’aggressore, la regressione, la simbolizzazione.

Solamente il bisogno psicologico di mantenere il ruolo di malato è quanto distingue il disturbo fittizio dal disturbo di simulazione e nella pratica clinica è difficile distinguerli. Da sottolineare che nel disturbo fittizio i sintomi non sono causati da fattori inconsci o simbolici, ma il decorso è cronico in quanto anche, per definizione, una diagnosi di disturbo fittizio comporta sempre la presenza di una psicopatologia.

Altra questione di difficile interpretazione riguarda le situazioni, che spesso si riscontrano in ambiente carcerario, dove sono presenti disturbi di tipo psicosomatico. In questi casi si instaura un processo di "somatizzazione", con manifestazioni diverse per gravità: dalle vaghe e poco definite sensazioni di malessere per arrivare alle vere e proprie patologie organiche tipo l’asma bronchiale, gastriti, duodeniti, ecc, In concomitanza i soggetti manifestano anche psichicamente il loro disagio ed è di difficile interpretazione in quanto oscillano dalle "variabili d’ansia" all’angoscia, fino alle "equivalenze di depressione", In questo caso la sintomatologia ha una componente simbolica o inconscia e i sintomi non sono prodotti volontariamente ed intenzionalmente.

Sono solamente i fattori psicologici, ad influenzare negativamente la condizione medica. Il malessere di tipo somatico, a livello emotivo ed affettivo, è generalmente vissuto con uno stato di ansia intenso, tale da determinare lo sviluppo di preoccupazioni di tipo ipocondriaco (timore di essere affetti da gravi malattie somatiche anche in assenza di evidenze di tipo obiettivo). In questi casi, assai frequenti, i detenuti chiedono continuamente sempre nuovi esami diagnostici e visite mediche, nella "speranza" di avere dei riscontri oggettivi ai loro sintomi, per "ricavarne" se è possibile anche qualche privilegio. Questo ultimo punto differenzia il disturbo fittizio dal somatoforme in quanto nel primo non è presente la bella indifferenza e l’ipocondriaco non desidera essere sottoposto ad interventi chirurgici.

 

Atti di autolesionismo

 

Gonin descrive il martirio del corpo incarcerato: parla degli ingoiatori, che usano il proprio intestino come ripostiglio; la vocazione diffusa per la bocca sdentata, a seguito di una domanda ossessiva per l’estrazione dei denti invece che per la loro cura; le proiezioni selvagge sulla pelle, dai rossori agli eczemi fino alle martorizzazioni volontarie (labbra e palpebre cucite con lo spago, tatuaggi deturpanti); auto amputazioni delle dita, delle orecchie e altro ancora; rischio suicidario e di contagio a malattie infettive. Un percorso sul/nel corpo recluso. La ricerca di Gonin ha messo in evidenza che i comportamenti autoaggressivi sono rari al momento dell’incarcerazione (1,7%); dai sette giorni ai quattro mesi raggiungono il 9%; dopo i quattro mesi la tendenza volge alla rassegnazione, la percentuale si stabilizza sul 4,5% dopo circa sei mesi; si mantiene intorno al 3,5% per tutto il periodo della detenzione. Si evidenzia inoltre che alcuni detenuti moltiplicano i gesti autoaggressivi lungo tutto il periodo della detenzione, alternando automutilazioni, scioperi della fame, ingestioni di corpi estranei.

Anche in Italia è segnalato che l’ingresso in carcere8, specie in persone giovani, tossicodipendenti, malati mentali, extracomunitari, soprattutto se per la prima volta, può arrecare traumi tali da determinare pratiche autolesionistiche o suicide. È necessario dunque accertare eventuali stati di fragilità fisica o psichica o qualsiasi indizio o inclinazione della persona suscettibile di sfociare in atti di auto o di etero aggressione.

Secondo alcuni studiosi la condotta auto lesiva del soggetto recluso può avere tre origini soggettive diverse, così da potersi distinguere, tra:

 

Distinguerne le cause è di estrema importanza perché gli effetti giuridici delle condotte auto lesive sono in relazione alle cause soggettive motivazionali che giustificano una pluralità articolata di reazioni da parte delle autorità penitenziarie e giudiziarie.

Vi sono stati psicologici alla base del gesto autolesivo: uno dei più frequenti è la crisi ansioso-depressiva, che può manifestarsi con lo sciopero della fame, le lesioni da taglio multiple sugli avambracci o sull’addome o sul torace compiuti da detenuti di nazionalità italiana. Mentre, per i detenuti extracomunitari, specie se di religione mussulmana, l’atto di procurarsi enormi tagli con forti emorragie assume un valore purificatorio, quasi di catarsi.

Generalmente nei soggetti che ricorrono a questi mezzi "ricattatori", in assenza di un evidente quadro psicopatologico, si riscontra un atteggiamento di tipo rivendicativo, cioè risultano ipervalutati i "torti" subiti ma trascurate le responsabilità personali. Talora, inoltre, si notano anche personalità rigide, diffidenti, scarsamente adattabili, che possono porre in atto tali gesti con determinazione, spesso ripetendoli più volte, arrivano al punto di sottoporsi ad interventi chirurgici, se le loro rivendicazioni non sono accolte. Infine si può ricordare come in soggetti facilmente influenzabili la situazione ambientale particolare determini comportamenti imitativi, anche autolesivi, ritenuti necessari allo scopo di essere meglio accettati dal gruppo.

Nella realtà della popolazione detenuta, secondo i dati per il 1998 riportati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dall’Associazione dei Medici penitenziari, i casi di autolesionismo sono stati ben 6.342.

Detenuti intervistati ritengono il "disagio psicologico" non meglio identificato una delle cause più importanti, delle volte è un modo per poter "parlare con il Direttore", altre volte gli stessi soggetti non riescono a spiegarlo: "È un modo di agire spesso provocato da rabbia, esasperazione, rabbia repressa, dall’impotenza di fronte ai mille no...". In Gonin si legge" i conflitti, le frustrazioni, le angosce, non potendo più essere sopportate psichicamente, sono trasformate, digerite, anche se parzialmente, nel momento in cui sono accolte sul corpo. Il solo spazio ricettacolo di cui disporrebbe il soggetto per gestire le sue pulsioni sarebbe il corpo".

"Quel pomeriggio egli aveva inciso nella carne la semplice richiesta di un trasferimento. Ci vollero diciassette punti di sutura per ricucire il "sollecito" di una traduzione tardiva", in quanto "quelli solo cosi li smuovi, solo cosi". Ovvero "di come l’istituzione manipola, mutila e distrugge l’identità per possedere il corpo del recluso e come il corpo del recluso si automutila per affermare la propria identità". Quindi una forma di reazione alla depersonalizzazione dell’istituzione, "il corpo che si mette in gioco per affermare un certo grado di libertà, [...] di libertà paradossale [...] una auto mutilazione liberatoria [...] contro questa società e le sue istituzioni totali, l’automutilatore si libera, vomitandole i suoi pezzi sulla faccia".

La mano del prigioniero che compie la "danza dell’ago", non compie un gesto auto - erotico, è "la scelta di un linguaggio analogico per superare il brusio indistinto delle parole" e urlare la propria presenza "nel gioco brutale della reclusione". È la mano che mostra come "il corpo segregato è già cucito, ma l’ago che lo punge e il filo che lo insacca sono resi invisibili. Quel giorno la sua mano ruppe il silenzio", "prese ago e filo e si cuci i genitali e la bocca. Con questo gesto fece vedere ciò che l’istituzione abilmente occulta: il corpo recluso non ha alcuna possibilità comunicativa; la relazione sessuale gli è preclusa; il linguaggio verbale è ridotto a brusio solitario".

Una comunicazione viziata, "ristretta" o forse troppo urlata per essere ascoltata davvero. Per tentare di contenere questo "problema" l’amministrazione penitenziaria ha emanato varie circolari raccomandando a tutto il personale il massimo impegno per prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti, sia rimuovendone, per quanto possibile, le cause, sia impedendone l’esecuzione.

Infatti viene riconosciuto allo Stato il potere di intervenire coattivamente "quando l’atto auto lesivo sia posto in essere secondo modalità tali da far sussistere un concomitante e prevalente interesse della collettività". Questo può avvenire in tre casi:

In altri casi la reazione giuridica è di tipo negativo, nel senso che lo Stato interviene semplicemente non concedendo quel beneficio che l’autore voleva raggiungere ponendo in essere strumentalmente un’autolesione.

Il ripetersi di episodi di autolesionismo, può incoraggiare le direzioni ad adottare regimi di stretta sorveglianza e a trasformare un istituto in una grande sezione speciale. La trasformazione sarebbe dettata da circostanze che si sono realmente verificate: evitare l’epidemia degli atti autolesionistici; diminuire i carichi di lavoro del personale di custodia attraverso la limitazione dei movimenti consentiti ai detenuti. L’autolesionista che non abbia successo pieno nel suo tentativo, può essere rimosso dall’istituto ordinario e affidato ad un istituto speciale. Come si evince drammaticamente la comunicazione, anche estrema, fra detenuto ed istituzione non sembra cosa possibile!

 

Ingestione di corpi estranei

 

Un mezzo significativo a cui spesso fa ricorso il detenuto per richiamare l’attenzione sulle sue vicende è l’ingestione di corpi estranei. Grazie all’ausilio delle radiografie, fra gli oggetti più frequentemente ingoiati, si trovano: tagliaunghie, chiodi, chiavi, viti, spilli, spazzolini da denti, manici di cucchiai, forchette, piccoli coltelli, catenine con crocifissi o medaglie, lamette, pile, lampadine, molle delle reti del letto, pezzi di vetro, pezzi di metallo in genere, cioè tutto quel materiale che è possibile recuperare in cella. Le lame di rasoio nello stomaco sono fra le cose che fanno più impressione. La tecnica per non tagliarsi consiste nel rompere a metà la lametta nel senso della lunghezza, sovrapporre le parti e farle scivolare sul fondo della lingua. Dalle radiografie non si evidenziano particolari lesioni e l’espulsione anale avviene, di solito, senza dolore e a volte senza che il detenuto se ne accorga.

Al fine di favorire l’espulsione naturale dell’oggetto ingerito, gli "ingoiatori" sono sottoposti ad una dieta a base di cibi solidi (mollica di pane, patate, mele, verdure, crusca). La progressione dei corpi estranei nel tubo digerente è favorita dai farinacei che avvolgendo il corpo estraneo, ne riducono anche la pericolosità per la parete gastro-intestinale e gli impediscono di restare impigliato nelle pliche della mucosa.

Ma che "risultato" ottiene l’ingoiatore? Si potrebbe pensare ad un ricovero in un centro clinico dell’amministrazione penitenziaria, o in un ospedale civile, se si tratta di un intervento urgente d’emergenza. E quindi, anche se in modo traumatico, il detenuto, anche solo temporaneamente, "evade" dalla propria cella, Per Gonin non è così, per l’autore i detenuti non sollecitano il ricovero in ospedale e il numero dei casi non è diminuito nonostante il mantenimento in stato di detenzione, Rappresenta certamente un gesto di aggressione nei confronti di se stessi ma nello stesso tempo "è altrettanto probabile che questo stesso gesto possa, talvolta, essere finalizzato a segnalare l’esistenza trascurata, lo sconforto o l’abbandono di un detenuto, ma resta una zona oscura.

Che il detenuto voglia dimostrare di essere posseduto anche nel suo spazio interno, il recluso non sarebbe più che un tubo digerente senza alcun rapporto con il vivente scivola in un nulla d’esistenza, come pietrificato dal minerale o dal metallo che contiene. Egli è diventato la pietra, il ferro, il vetro, la plastica del suo stesso contenitore. Egli è ormai il muro della sua stessa prigione".

E in modo paradossale ma non per questo meno atroce sembra ci ricolleghiamo all’interiorizzazione della norma come avviene nel carcere piranesiano, all’ingoiare la norma stessa simbolicamente rappresentata da oggetti diversi. Dal punto di vista psicologico può essere assimilato al concetto di resistenza alla pena, kafkianamente intesa, come scrittura della norma infranta sulla pelle del detenuto. Un qualcosa che ti penetra dentro: tu diventi la Legge, dentro e fuori ma, in fondo, te la digerisci anche in un processo dinamico di trasformazione.

 

Sciopero della fame

 

Anche lo sciopero della fame rientra tra i vari gesti autolesivi che i detenuti possono compiere. A volte può trasformarsi in un ricatto, la cui la posta in gioco è la perdita della vita intesa come prezzo da pagare contro il rifiuto dell’istituzione a rispondere ad una richiesta.

Si definisce sciopero della fame il rifiuto volontario e totale detta assunzione di cibo (in genere con l’esclusione del rifiuto dell’acqua), senza. giustificato motivo medico, che duri da più di tre giorni. Dopo di che l’amministrazione penitenziaria provvede a trasferire il detenuto in una cella singola per monitorare le condizioni psico-fisiche, cioè dovrà essere visitato due volte al giorno con particolare attenzione al peso. Questa precauzione è resa necessaria per verificare se si tratta di un vero e proprio sciopero della fame oppure di una simulazione dello stesso. Se il digiuno prosegue pe-r lungo tempo sussiste la possibilità di conseguenti lesioni neurologiche.

Il soggetto può rifiutare, oltre gli alimenti, anche ogni intervento del medico penitenziario, sia a scopo diagnostico che a scopo terapeutico. Di conseguenza si pone il problema della legittimità o meno del trattamento coattivo da parte dei sanitari, il ricorso al quale può essere visto come necessario per il rischio di morte del digiunatore.

Nel caso di sciopero della fame di persona detenuta si deve sottolineare l’obbligo giuridico dell’Amministrazione penitenziaria di tutelare la vita e l’integrità psico-fisica degli individui in custodia. In tale senso, non esistendo validi strumenti legislativi. l’amministrazione penitenziaria si avvale di quelle stesse norme applicabili per il trattamento dei cittadini liberi e, quindi, il cittadino detenuto, in quanto tale, ha il diritto di autodeterminarsi. Stando a queste norme, l’amministrazione può effettuare un T.S.O. solo quando "esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici". Spetta al dirigente medico dell’istituto decidere, qual è il momento in cui le condizioni psichiche del soggetto sono tali da fargli venire meno la coscienza detta realtà. Il medico penitenziario per procedere ad un T.S.O. deve avere l’emissione del provvedimento dal Sindaco, ed è importante sottolineare che spetta ai servizi sanitari e alle strutture ospedaliere pubbliche l’accertamento per l’esecuzione di un T.S.O., non ai servizi penitenziari.

Quanto segue è la risposta del D.A.P.. in data del 6.9.96. ad un direttore sanitario di un istituto penitenziario, che doveva decidere sull’esecuzione o meno del T.S.O.: "Nel caso del cosiddetto sciopero della fame del detenuto, oltre a porre in essere le forme trattamentali più idonee per far recedere il detenuto da tale comportamento di nocumento su se stesso, si ritiene che l’alimentazione forzata debba essere attuata dal momento in cui il detenuto sia pervenuto a condizioni tali da trovarsi in stato di alterazione della propria volontà a causa di anormalità psichica e, ciò nonostante, prosegua nel rifiuto dell’alimentazione.

Il sanitario, pertanto, ha il compito di seguire lo svolgimento cronologico dello stato morboso del detenuto scioperante e di adottare con tempestività i necessari interventi terapeutici per tentare di prevenire il ricorso alle situazioni di estrema urgenza, come nel caso del trattamento sanitario obbligatorio.

Così, oltre che per il personale sanitario, anche per quello direttivo degli istituti penitenziari vi è l’obbligo di garantire al ristretto l’incolumità personale e la sua salute, in considerazione anche del fatto che la scelta di lasciarsi morire in carcere per fame è libera fondamentalmente soltanto in apparenza, essendo il comportamento del detenuto scioperante influenzato dallo stato detentivo, che può portare a distorcere a livello essenziale la percezione della realtà. Fra gli interventi che gli operatori e i sanitari sono tenuti a porre in essere per prevenire la morte o i danni da denutrizione del recluso che volontariamente rifiuta di nutrirsi vi è anche quello del ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, secondo le procedure e le modalità indicate dal legislatore con la normativa di cui alla legge n. 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale".

 

Problematiche di salute psichica

 

Problematiche psichiche

 

Nei detenuti sono stati riscontrati dei disturbi psicologici durante la detenzione, specie nella fase iniziale. È possibile suddividere i disturbi mentali in due grandi categorie:

La multiformità dei disturbi psicologici e delle malattie psichiatriche e la possibilità di forme di passaggio fra l’una e l’altra rendono difficile una classificazione. In linea generalissima, si può affermare che tali disturbi possono essere ricondotti alle seguenti categorie:

 

Psicosi carcerarie

 

Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti. Esse possono essere la continuazione o l’esacerbazione e di disturbi psichici preesistenti, oppure la strutturazione di una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente traumatizzanti dal punto di vista psicologico, quali l’entrata in carcere, l’attesa di giudizio, la previsione di condanna, la sentenza stessa.

Consideriamo la "sindrome da ingresso in carcere", come una serie di disturbi non solo psichici, ma spesso psicosomatici, che compare tanto più frequentemente e pesantemente quanto più elevato è il grado di educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il trauma da ingresso in carcere può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. La risposta del soggetto si modula in base alla sua struttura di personalità e alle abilità/capacità di adattamento in possesso, nonché all’ambiente-cella e ai compagni.

La capacità di adattamento sarà superiore in un soggetto con esperienza di precedenti carcerazioni, o che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento (detenuti che appartengono alla stessa banda criminale, alla malavita della stessa zona o più semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o quartiere).

È certo comunque che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Vari tentativi di umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la predisposizione, attraverso la Circolare Amato del 30/12/1987 n. 3233/5683, del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un colloquio con ogni singolo detenuto all’atto di ingresso in istituto; tale colloquio è volto a valutare la personalità del soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi.

Inoltre sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione, ed è a queste particolari patologie che gli studiosi si riferiscono quando parlano di psicosi carcerarie, cioè vere e proprie forme psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si osservano in altri ambienti.

In tale senso Calzolari definisce le psicosi come "quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in una situazione, temporanea o permanente, di perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui vive e di mantenere tra se e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile. In base ai fattori eziopatogenetici possiamo suddividerle in due gruppi; le psicosi organiche (metaboliche, disendocrine, infettive, vascolari, degenerative, neoplastiche, post-traumatiche, genetiche) e le psicosi endogene (o funzionali), includenti le schizofrenie e i disturbi dell’umore".

L’ambiente delle istituzioni carcerarie può favorire la "soluzione", in chiave di malattia psichiatrica, a volte, ad una condizione di vita particolarmente difficile, nella fattispecie a quella del detenuto: si sottolinea la deprivazione sensoriale, la mancanza di affetti, di rapporti sociali, che caratterizzano l’isolamento carcerario. La situazione di "punizione" si alimenta con il vissuto depressivo, che permea i rapporti personali, le vicende giudiziarie, le prospettive di condanna e la stessa struttura penitenziaria, sviluppando processi di autocolpevolizzazione che, a loro volta, sostengono quelle forme psicopatologiche che si ricollegano con i sentimenti di colpa (ad esempio nevrosi o psicosi depressive).

La carcerazione, proprio per il suo essere un evento improvviso e destabilizzante, può favorire lo sviluppo del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già fragile, che non riesce più a mantenere più il suo già traballante equilibrio; può dare il via a forme di schizofrenia che si sviluppano in tutta la loro sintomatologia dopo l’arresto, oppure in forme border line che diventano chiaramente psicotiche.

Concludendo si vuole ricordare che tutte queste problematiche vengono curate ed assistite all’interno del carcere dal personale medico, in particolare dallo psichiatra dell’istituto, in quanto non è prevista una misura alternativa, che non sia quella del ricovero in O.P.G.. Dal punto di vita umano queste sono situazioni drammatiche in quanto creano angoscia e disperazione nei soggetti detenuti e producono effetti dannosi sulla psiche di un individuo, ma non sono cosi "gravi" da concedere l’incompatibilità con il carcere.

 

Sindrome di Ganser

 

Continuando nell’analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la sindrome di Ganser (pseudo demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). È un raro disturbo mentale che pur non presentandosi esclusivamente in carcere, si osserva generalmente in soggetti detenuti in attesa di giudizio. Consiste in una reazione isterica basata su di una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità. sforzandosi di apparire infermo di mente.

Uno tra i sintomi psicopatologici più caratteristici è il fatto che i soggetti non sono capaci di rispondere alle domande più semplici che vengono loro rivolte. sebbene dalle risposte è evidente che hanno capito il significato della domanda e nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno posseduto e che ancora, senza ombra di dubbio, possiedono. Gli individui praticamente parlano fuori tema, a vanvera, trascurano la risposta corretta e ne danno un’altra simile, ma inesatta. Calcolano di traverso nell’esecuzione di calcoli semplici, mentre magari sono capaci di svolgere correttamente quelli più complessi e difficili.

La sindrome di Ganser è caratterizzata da un comportamento bizzarro, da allucinazioni visive ed uditive, da deliri, da disorientamenti, da amnesia, da convulsioni isteriche, da marcata variabilità dell’umore.

Il detenuto può fare cose strane durante la visita: si può spogliare ed indossare gli abiti al rovescio, chiedere un biglietto per il treno eccl2. Sul piano espressivo, non c’è dubbio che tale condizione si presenti con un quadro di una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle funzioni psichiche (dell’orientamento, della memoria, dell’attenzione). "Ma si tratta di sintomatologia "pseudo demenziale", a metà strada cioè fra la simulazione e la reazione inconscia e con pressoché costante componente isterica a sostegno; può apparire psicotica ma la somiglianza è solo superficiale, a meno che naturalmente il quadro clinico non sia spia di una reale forma psicotica".

La sintomatologia è contraddistinta dal puerilismo che si nota dall’aspetto recitativo o "bamboleggiante" che questi soggetti assumono. Si tratta di reazioni relativamente rare, che compaiono per lo più in soggetti dotati di modesta intelligenza o con personalità premorbosa di tipo isterico, che reagiscono a condizioni ambientali stressanti, o comunque vissute con senso di pericolo o incapacità, con il ricorso a comportamenti apparentemente "folli", ovvero che egli ritiene possano essere interpretati come tali, in maniera in parte conscia ed in parte inconscia.

La sindrome ganseriana impone una diagnosi differenziale con la simulazione in quanto restano dubbi circa il fatto che sia una simulazione cosciente o incosciente. È considerata di difficile trattamento intramurario in quanto, per definizione, si risolve nella rimozione della causa che l’ha prodotta.

Se la somiglianza con quadri più gravi (demenza o comunque deterioramento su base organica da un lato e psicosi dall’altro) è solo superficiale, "se manca quell’uniformità sintomatologica che riflette la globale, reale compromissione dello psichismo e che si traduce in più gravi alterazioni del comportamento che tipicamente compaiono nelle condizioni alle quali il Ganseriano tenta di assomigliare, il giudizio non potrà che essere negativo".

In altri termini, la sola ricorrenza dei sintomi più esteriori della Sindrome di Ganser, ovvero un parziale disorientamento unito ad apparente perdita del patrimonio conoscitivo, non costituisce condizione sufficiente ad integrare quei requisiti di particolare gravità richiesti dal IV comma dell’articolo 275 codice di procedura penale.

I sintomi possono sparire d’improvviso quando il tribunale giunge ad un verdetto, anche se questo è sfavorevole. Da sottolineare che la sindrome si presenta sempre dopo che il reato è stato commesso, quindi la sua presenza non ha alcun effetto sul giudizio medico - legale circa la responsabilità del soggetto e la sua imputabilità riferita al momento del fatto.

Sindrome da "prisonizzazione "

 

Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che viene indicata, sul piano nosografico, come sindrome da prisonizzazione, sindrome che si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla sindrome ganseriana.

Per Clemmer con il termine "prisonizzazione" si intende l’effetto globale dell’esperienza carceraria sull’individuo. Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale. Quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con i suoi usi e costumi, con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d’onore, con i suoi esempi da imitare. Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza inducono l’istituzione penitenziaria a ricercare ed alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei comportamenti dei detenuti, attraverso l’imposizione di "valori" comuni. Questi "valori" altro non sono che i prodotti delle finalità e delle funzioni carcerarie, indotti in vari modi, esplicitamente o implicitamente, tramite un lento e spesso inconsapevole processo di assimilazione. I detenuti "acquistano familiarità con i dogmi e i costumi esistenti nella comunità. Sebbene questi cambiamenti non avvengano in tutti gli individui, tutti sono comunque soggetti a certe influenze che possiamo chiamare i fattori universali della prisonizzazione.

L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del linguaggio locale, il riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e l’eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della prisonizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti. Questi, comunque, non sono gli aspetti che ci preoccupano di più. Le fasi della prisonizzazione che ci preoccupano di più sono le influenze che fomentano o rendono più profonda la criminalità e l’antisocialità e che fanno del detenuto un esponente caratteristico dell’ideologia criminale nella comunità carceraria".

Attraverso la prisonizzazione l’istituzione penitenziaria tende ad eliminare le differenze individuali nei ristretti, assimilandoli e fagocitandoli". I bisogni, i desideri e le esigenze personali del detenuto sono, cosi, annullati e sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell’istituzione. D’altro canto però Clemmer afferma anche che ogni individuo sente l’influenza dei cosiddetti fattori universali, ma non ogni individuo diventa prisonizzato per altri aspetti della cultura. Se una prisonizzazione avviene o meno - continua Clemmer - dipende in primo luogo dall’individuo stesso, vale adire dalla sua sensibilità dalla cultura che a sua volta dipende soprattutto dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell’incarcerazione, vale adire dalla sua personalità. Sul piano clinico Catanesi sostiene che la comune reazione d’ansia iniziale, a volte con spunti fobici e diverse manifestazioni somatiche, nel tempo di 2-3 giorni, viene sostituita dalla sindrome da prisonizzazione vera e propria oppure il soggetto, per lo più nei casi di recidivi, comincia a muoversi lungo le direttive di un progressivo adattamento. In realtà il soggetto detenuto vive sensazioni angosciose ed opprimenti, può presentare tratti fobici, che possono trasformarsi in paura per la propria incolumità fisica. Solitamente questa fase, definita di "iperestesia" agli stimoli ambientali, si esaurisce in 2-3 settimane. Si nota come all’ansia siano correlati sintomi quali insonnia, inappetenza e un’incapacità di gestire la propria emotività. Queste sono le manifestazioni più dolorose sulle quali è necessario intervenire non solo farmacologicamente, ma soprattutto psicologicamente, poiché in questo momento il soggetto, sentendosi perso, può andare incontro ad improvvisi gesti autolesivi.

Il disturbo si trasforma poi in depressione caratterizzata dal ritiro in se stessi, la paura è sostituita dallo sconforto, sono presenti idee di rovina. L’evoluzione e la capacità di far fronte a questa forma depressiva dipendono dalla personalità, dalle risorse individuali, dal rapporto con i compagni di cella e dal sostegno della famiglia che il detenuto è in grado di avere. Un ruolo predisponente rivestono anche l’età, il recidivismo criminale, il condizionamento regionale.

Si può, in accordo con Fratelli, applicare la teoria di Goffman, relativa alle "istituzioni totali" (usata dall’autore in riferimento agli ospedali psichiatrici e la loro interazione con i degenti dell’istituzione stessa), anche ai detenuti, in quanto i reclusi sono sottoposti ad un processo di "spoliazione del sé", separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità.

Sostiene sempre Goffman che all’interno dell’istituzione si verificano delle vere e proprie "esposizioni contaminanti" dovute alla soppressione della privacy ed all’imposizione di condizioni ambientali sfavorevoli e fonti di malessere. Questo perché:

In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono, che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo subiscono, In ogni sistema penitenziario vi è purtroppo una duplice contraddizione di fondo duplice: si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi.

Successivamente Sommer e Osmond hanno sottolineato tre effetti fondamentali della prisonizzazione:

Gli stessi autori individuano, come fattori fondamentali di stress che ulteriormente alimentano questa sindrome, l’isolamento (carenza di interazione fra interno ed esterno) e la privazione di stimoli. Altre ricerche infine hanno messo in relazione la prisonizzazione con il deterioramento mentale.

 

Condizioni di incompatibilità e patologie psichiatriche

 

Come già ribadito nei paragrafi precedenti il disturbo psichico sopravvenuto nel condannato comporta il trasferimento in ospedale psichiatrico giudiziario. Nei detenuti imputati il criterio ostativo alla custodia cautelare in carcere è definito quello delle "condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere".

Cominciamo con il riportare le sentenze della Corte Suprema per definire lo "stato di condizioni particolarmente gravi": "...stato patologico idoneo, per la sua serietà ed imponenza, a pregiudicare notevolmente la capacità fisica e psichica", "una compromissione seria e notevole dell’integrità fisica e psichica del soggetto", "di rilevante pregiudizio per la salute". Come si vede non sono che formule vuote e confuse, di fatto non è chiarito quale sia in concreto la condizione di malattia!

Ma ancora si legge che la "particolare gravità" "deve essere tale da un punto di vista soggettivo ed oggettivo" e tali non sono considerati "gli stati morbosi di origine psichica, soprattutto se legati all’afflittività della custodia in vinculis". Infatti se la patologia psichiatrica è direttamente riconducibile allo stato detentivo raramente ne viene riconosciuta la "particolare gravità" ameno che non sussistano motivati e gravi rischi per l’incolumità psicofisica del detenuto, quali inappetenza, rifiuto del cibo, sospetti di suicidio.

Anche sentenze più recenti non hanno mostrato maggiore attenzione alla malattia psichica, anzi, considerano ostativa alla persistenza della custodia cautelare in carcere "una sindrome neuropsicologica che abbia condotto il detenuto in breve arco di tempo a tre successivi tentativi di suicidio, l’ultimo dei quali compiuto con modalità tali da rendere molto probabile il realizzarsi dell’evento letale".

Autori si orientano nel definire il concetto di particolare gravità, di esclusivo carattere psichico, tale quando "debba essere presente un quid pluris identificabile in una sindrome psicopatologica specifica di rilevanza tale da rendere lo stato di privazione di libertà, in qualunque modo attuato, idoneo ad interferire negativamente sulla efficacia del trattamento terapeutico, che si rende indispensabile nella specie, in modo da compromettere l’esito e cosi produrre ulteriore nocumento alla persona dell’interessato con caratteristiche di prevedibile irreversibilità o comunque tali da rendere ancora più grave il già di lui compromesso stato di salute".

Ma la normativa prevede. come abbiamo già discusso, il confronto fra il concetto di "gravità" e la possibilità di trattamento intramurario, cioè la "gravità" sembra acquisire una maggiore e sicura "gravità" nel momento in cui non sono possibili i trattamenti interni, non prima ("non consentono le cure necessarie in stato di detenzione").

Chiaramente non si può pensare che in carcere sia possibile una completa guarigione ma almeno di ridurre, se possibile, o non peggiorare il quadro clinico. Questo è un dato di realtà in quanto per molte psicopatologie, ad esempio la sindrome ganseriana, la causa è proprio la condizione carceraria e, cosa molto importante, il carcere, di per se, come abbiamo visto, produce sofferenza psicologica. Se introduciamo il concetto poi di "incompatibilità" notiamo come l’interpretazione del concetto di "gravità" diventi ancora più difficile, in quanto l’incompatibilità dipende dalle possibilità terapeutiche e per la malattia psichiatrica è ovvio che le cure non sono adeguate in quanto solamente la condizione detentiva è fattore necessario e sufficiente ad escludere questa ipotesi. A tale proposito si riporta uno studio effettuato su detenuti portatori di malattia psichica e la relativa valutazione di compatibilità con il regime carcerario.

La casistica è visibile nelle tabelle (1,2,3,4) dalle quali si evince che su 50 casi considerati 17 attengono a problemi di natura psichiatrica. I casi sono stati ritenuti incompatibili con lo stato detentivo. Si sottolinea che per la maggior parte riguardano reazioni carcerarie di tipo ansioso-depressivo, con sintomi di anoressia, collegate a patologie di tipo psicosomatico con un decadimento delle condizioni generali dell’individuo.

 

Infermità e seminfermità mentale

 

È importante sottolineare che l’infermità mentale assume rilevanza diversa a seconda del momento in cui viene riconosciuta e della posizione giuridica nella quale il soggetto si trova. Per comodità ci riferiremo solo all’ambito clinico penitenziario. Dalla lettura dell’art. 20, Ordinamento Penitenziario "Disposizioni particolari per gli infermi e seminfermi di mente", sembrerebbe emergere una differenza di trattamento tra soggetti affetti da infermità fisica e quelli affetti da infermità psichica, infatti per le patologie psichiche, anche se diagnosticate a seguito di perizie, non è possibile adottare il differimento della pena, anche perché il ricovero del condannato in Ospedale psichiatrico giudiziario comporta la prosecuzione della pena stessa. Quindi non sembra prevista l’incompatibilità per problemi psichici, tanto che l’unica alternativa offerta alla detenzione è il ricovero in O.P.G.

Per i detenuti con condanna definitiva l’ordinamento penitenziario prevede che "nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso. col rispetto delle norme concernenti l’assistenza psichiatrica e la sanità mentale". Tale previsione risulta applicata nel caso di infermità psichica sopravvenuta del condannato e tale accertamento è disposto dal magistrato di sorveglianza.

Nella pratica: ai condannati a pena superiore a tre anni ai quali sopravvenga infermità psichica è previsto il ricovero in O.P.G. o in casa di cura e custodia. Per i condannati a pena inferiore ai tre anni si ricorre ai servizi dell’assistenza pubblica. Il ricovero è ordinato per un tempo non inferiore ad un anno, se la pena prevista non è inferiore a cinque anni. Se la pena prevista è minimo dieci anni o l’ergastolo la misura ha una durata minima di tre anni. Se esiste la pericolosità sociale del condannato il ricovero ha la durata minima di sei mesi. il giudice può sostituire questa misura detentiva con quella della libertà vigilata, solo se il condannato non ha già diminuzioni di pena in quanto affetto da intossicazione cronica di alcool o da sostanze stupefacenti.

Per quanto riguarda le cosiddette "misure di sicurezza psichiatriche" la durata minima è prefissata in misura diversa a seconda della pena massima prevista per quel tipo di reato. La legge stabilisce che il giudice possa graduare la pena ma non la misura di sicurezza. che è fissata per il tipo di reato commesso. Le misure di sicurezza sono flessibili in quanto possono essere espiate non solo dopo la reclusione ma anche prima o dopo la pena, interrompendone temporaneamente il decorso.

La legge prevede la seminfermità mentale quando all’imputato sia riconosciuta una diminuzione della capacità d’intendere e di volere, cioè la sua capacità di autodeterminazione. Il seminfermo subisce un trattamento particolare. per cui è considerato imputabile. ma la pena è diminuita e si applica la misura di sicurezza.

Le misure di sicurezza detentive non sono cumulabili, se ne applica sempre una sola. Se le misure sono di tipo diverso, se vi è, si applica quella psichiatrica. Se un soggetto sta scontando una misura di sicurezza di tipo non psichiatrico, e viene colpito da malattia mentale, sarà internato in O.P.G. per trasformazione della misura, dove rimarrà finche non sarà giudicato guarito.

Tutto ciò sembra confermare l’attenzione alla salute mentale del condannato, ma fa notare come le misure alternative con finalità di cura sono subordinate alla durata della pena, per cui, a parità di disturbo mentale, il condannato può fruire o no di cure adeguate. Ciò a causa di un conflitto che viene a crearsi fra il diritto dell’individuo alle cure e il dovere del sistema penale di subordinare quel diritto al grado di minaccia sociale desumibile dalla gravità del reato, la cui misura è indicata dalla sentenza.

La malattia psichica, dunque, non esprimendo una situazione di incompatibilità, comporta un trattamento diversificato nella misura in cui non sono offerte alternative al ricovero in O.P.G. o in casa di cura e di custodia (ex art. 219 codice penale). La legge 180/78, sopprimendo gli ospedali psichiatrici civili, rende difficile, peraltro, una interazione con le strutture esterne al di fuori dei casi di urgenza. Sottolineiamo che il trattamento degli infermi psichici è discriminato anche nei confronti dei soggetti di pari categoria che non delinquono, avendo essi diritto, a seguito della 180/78, ad un trattamento terapeutico non di tipo custodialistico e segregante come quello che caratterizza la malattia mentale in carcere.

Una proposta di cambiamento è presente nel "progetto Grossi", disegno di legge n. 177 del 1983. I firmatari del progetto si propongono di abolire la legislazione speciale per i malati psichici, vorrebbero abolire la nozione stessa di incapacità di intendere e volere, dichiarando quindi il soggetto imputabile, equiparandolo ai soggetti che commettono reati in stato di ubriachezza, di stupefazione, o in stato emotivo o passionale, abolire quindi l’internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, sostituendolo con il carcere.

Abolire inoltre la distinzione fra imputabili e non imputabili, considerando tutti gli autori di reato responsabili delle loro azioni, ma inserire, nel settore dell’esecuzione, trattamenti differenziati all’interno delle stesse strutture penitenziarie. In ultima analisi si propone di abolire la pericolosità del malato di mente autore di reati e delle misure di sicurezza collegate allo stato di malattia.

 

Aree problematiche di tutela della salute

 

Differenza di genere e malattia in ambiente carcerario

 

Attualmente, almeno nei paesi più ricchi e sviluppati, i corpi delle donne e degli uomini appaiono parimenti definiti da una rete densa di saperi, relativi alle funzioni fisiche e mentali, e da un assieme di prescrizioni relative al rapporto tra "cura di se" e "buona salute", come sosteneva Foucault. Sembra quindi che la differenza di genere rispetto alla salute sia meno rilevante di un tempo, anche riferendosi ai suoi indicatori più evidenti e socialmente marcati. La Bimbi nota sia una "persistenza di modelli di genere legati al passato che un ridefinirsi della differenza sessuale attraverso assegnazioni di valore sociale diverse da quelle di un tempo".

La differenza di genere diventa molto significativa, in relazione al modo di viverla e alle conseguenze, se si pensa che la pena e la reclusione sono istituzioni sociali che si sviluppano in un regime normativo egualitario. Cresseye Irwin (1962) notano come le differenze nelle organizzazioni carcerarie siano la conseguenza dei diversi modelli comporta mentali di uomini e donne nella società e poi ricreati in carcere in base alle esperienze predetentive e ai sistemi socioculturali di riferimento. Inoltre le culture detentive sono una prosecuzione differenziale per genere della cultura esterna.

In particolare le donne e gli uomini utilizzerebbero nei confronti della cura di se e degli altri in gran parte gli stili tradizionali dei rispettivi modelli sociali dell’identità, ma con risultati diversi. "L’espressione sociale della sofferenza è tradizionalmente assegnata al sesso femminile".

Ma forse proprio questa manifestazione di debolezza è la forza delle donne: il saper comunicare senza vergogna le proprie emozioni e sensazioni, l’usare il proprio corpo in modo non distruttivo è un modo per reagire in maniera attiva alle costrizioni imposta dalla struttura e manifestare il proprio esserci ed esistere. Quindi "una maggiore insofferenza alla detenzione", "E così c’è chi riempie il buco nel cuore con il cibo o si lascia consumare dall’esaurimento nervoso". Il carcere divide dalla propria realtà sociale e dagli affetti e le donne ne sono colpite più degli uomini perché, come sottolinea la Bimbi, portano il peso maggiore di responsabilità affettiva: "quando una donna entra in carcere ci sono sempre, fuori, i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei, che hanno bisogno di lei e che restano abbandonati e senza sostegni". E così la donna detenuta, oltre al peso della carcerazione, vive lo stare male della colpa. "Il fatto è che i figli ti mettono su un piedistallo, tutto quello che viene da te è giusto... e tu hai paura di perderli...".

Le donne in carcere poi non fanno notizia in quanto, rispetto al numero degli uomini, sono poche ma quello che le rende particolarmente non degne di nota è che non sembrano patire la condizione di sovraffollamento!

Le donne in stato di detenzione sono "solo" 2.425, suddivise in sei istituti e svariate sezioni femminili all’interno di istituti misti. Il totale delle entrate in carcere dallo stato di libertà nel 2000 è di 6.519 unità. 1.115 sono imputate, 1.193 condannate, di cui 81 in semilibertà, 81 internate. Le donne straniere sono 946. Tendenzialmente la popolazione femminile è condannata a pene inferiori rispetto alla popolazione totale detenuta, secondo dati a gennaio 2001.

Sul totale delle detenute l’11,75% è privo di titolo di studio, ben il 4,71 % è analfabeta, il 35,78% possiede il diploma di scuola media inferiore, il 20,92% il diploma di scuola media superiore, 1’1,64% è laureata.

Secondo il rapporto di Antigone del 2000, circa il 70% è disoccupata, solo il 10,8% ha un lavoro, il 9,5% sono casalinghe, ma comunque per il 70% l’attività precedente alla detenzione era il lavoro operaio. Risulta inoltre che il 50% delle donne ha figli, mediamente 1’80% di esse ne ha anche tre.

Il 33, 70% dei reati commessi da donne è legato a violazioni della legge sulla tossicodipendenza, il 22,24% a reati contro il patrimonio, il 12,82% a reati contro la persona. Sono solo 33 le donne detenute per reati di associazione a delinquere e di stampo mafioso.

Per quanto riguarda la condizione della salute della donna all’interno della struttura penitenziaria bisogna ricordare che le sezioni femminili, nella stragrande maggioranza in Italia, sono inserite in carceri maschili e pertanto il servizio sanitario è strutturato per rispondere alle esigenze di una popolazione di detenuti uomini.

Secondo la ricerca "Donne in carcere" le donne vivono più duramente e direttamente i "tempi della vita" sul loro corpo (le mestruazioni, la maternità, l’invecchiamento e la menopausa) rispetto agli uomini. "Sembra che il disagio più grande sia costituito dal gioco dell’oca, citato dalla Mambro, dalla percezione del tempo che passa, mentre si è costrette all’inutilità, a stare ferme mentre il mondo va avanti".

Per le donne parlare di salute quindi non si tratta solo di mera accessibilità ai servizi ma di affrontare il tema del "benessere psicofisico". Le autrici parlano di "Tempo e corpo recluso: i ritmi della salute e della malattia" proprio per sottolineare che i tempi del carcere stravolgendo in modo violento i tempi della vita sconvolgono anche i tempi del corpo. Sottolineano come i disturbi del ciclo mestruale sono il primo sintomo che compare nello stato detentivo: "è come se le donne detenute vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini) ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità".

La donna spesso somatizza il suo malessere e ai disturbi del ciclo mestruale si aggiunge la difficoltà a respirare. L’impotenza si esprime in crisi d’ansia, crisi d’angoscia, che insorgono alla sera, dopo la chiusura delle celle e che passano con la somministrazione di farmaci sedativi e ansiolitici: farmaci che sedano, per l’appunto questo dolore, questa lacerazione affettiva insostenibile. Per resistere ancora.

Esiste una tendenza alla psichiatrizzazione di tutta una serie di problematiche femminili connesse al sentire ed al vivere delle donne per le quali la risposta psichiatrica va a riempire un vuoto ed una difficoltà dell’esistenza che ha la sua radice prima nella forte disuguaglianza di potere tra i due sessi.

La depressione, che secondo alcuni dati riferiti alla popolazione generale colpirebbe le donne in misura doppia rispetto agli uomini, pare avere influenze significative anche sul destino e sulla genesi dell’infezione da HIV. Infatti, in un ampio studio americano più della metà delle donne seguite presentava sintomi di tipo depressivo. Altri studi, poi, evidenziano un’incidenza maggiore di depressione nelle donne con infezione da HIV rispetto agli uomini HIV. Ancora, ricerche recenti tenderebbero a mettere in relazione questa forma morbosa a un aumento di vulnerabilità rispetto all’HIV. Anche se appare prematuro assumere in toto questo dato, non bisogna dimenticare che caratteristica delle forme depressive femminili è un atteggiamento di passività rispetto agli eventi, rafforzato dall’impossibilità ad autodeterminarsi che tutte le donne sperimentano nel loro esistere quotidiano.

Scarsissimi sono i dati ufficiali disaggregati per sesso relativi alla situazione italiana. Non disponiamo di alcuna informazione di fonte istituzionale differenziate per genere, in relazione alle fasce di età di prima infezione, alle sopravvivenze, all’accesso alle cure, ai servizi di screening e di terapia, ai farmaci, alla salute mentale, all’aderenza alla terapia, alla qualità della vita, Naturalmente le indagini vanno realizzate con modalità che tutelino pienamente la privacy delle persone interessate.

A determinare questa situazione gravissima concorrono diverse concause, fra cui la quasi totale assenza di un’informazione mirata alle donne, e l’incapacità dell’organizzazione sanitaria e delle altre istituzioni di affrontare la complessa questione della sessualità femminile. Inoltre il sistema sanitario non riesce ancora ad avere consapevolezza del fatto che il benessere delle donne sia influenzato da una complessa rete di variabili non solo biologiche ma anche cliniche, psicologiche, sociali, e etiche. La donna detenuta sieropositiva rappresenta una realtà particolare in senso positivo. La donna detenuta non solo è una realtà biologica, esperenziale, educativa, culturale diversa da quella maschile ma si porta anche dietro realtà spesso particolari che possono meglio elaborarsi in un contesto di comunanza di esperienze fra donne.

Molte donne vengono da esperienze di violenza, molte devono farsi carco del problema dei figli, spesso si misurano con la problematica dell’affido dei bimbi. Emerge inoltre da molte ricerche che le donne hiv-positive sono più legate ai propri partner e che più spesso vengono lasciate piuttosto che esse stesse abbandonare il compagno. Le donne detenute devono misurarsi con la struttura carceraria pensata e strutturata al maschile, in particolare la Mambro scrive che "Il carcere è una struttura inventata dagli uomini per gli uomini e solo recentemente adattata molto sommariamente alle donne". Per questo è importante che l’intervento con le donne affette da hiv e aids occupi spazi e progettualità particolari. "Ogni mese una detenuta tossicodipendente viene spedita dal carcere romano di Rebibbia nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova)".

La denuncia è di una psicologa, Mirella Castellano, che da 13 anni lavora a Rebibbia. Da due anni nel carcere romano è stato istituito il presidio psichiatrico per intervenire su situazioni di disagio psicologico. Le reazioni anche violente delle detenute tossicodipendenti di Rebibbia vengono liquidate come patologie psichiatriche e quindi si interviene con terapie psicofarmacologiche. "Da due anni ha aggiunto Castellano- vedo tossicodipendenti ridotte allo stato vegetativo a forza di ricevere 150-300 gocce di Valium al giorno e psicofarmaci con dosi da cavallo. Queste sono, comunque, le donne da considerare fortunate perché le sfortunate vengono trasferite per un mesetto nel manicomio giudiziario". Secondo la psicologa, "ormai l’obiettivo della disintossicazione in carcere è un miraggio visto che non si completa neanche lo scalaggio del metadone".

Mirella Castellano ha detto di condurre una battaglia solitaria. Una voce a sostegno è arrivata da C. Stillo, dell’osservatorio per i diritti dei detenuti del carcere di Rebibbia per "evitare che le tossicodipendenti siano considerate pazze".

 

Tutela dei bambini in carcere

 

La stragrande maggioranza delle donne incarcerate con figli di età inferiore ai tre anni appartiene ad ambiti problematici: tossicodipendenza ed etnia zingara. Non è un problema di grandi numeri in quanto coinvolge circa 50 bambini in tutta Italia.

Libianchi riferisce che sono pochi e discutibili gli studi sull’effetto della carcerazione sui figli di madri detenute al momento del parto o che hanno comunque subito una carcerazione. Sottolinea come lo stress del periodo pre e post-partum sia vissuto dalle donne in stato detentivo in modo amplificato per i vissuti di inadeguatezza ed impotenza. "Il retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari inconsistenti, l’isolamento, una instabile salute fisica e/o mentale e la coscienza che il bambino potrà essere affidato ad un ente assistenziale, sono solo alcuni dei problemi che subiscono queste donne, testimoniando un bisogno di tutela maggiore rispetto alle libere".

L’Autore riferisce di alcuni studi tesi a dimostrare che i bambini, le cui madri hanno trascorso il periodo di gravidanza in carcere, risultano in migliori condizioni di salute e con un peso alla nascita maggiore rispetto a donne che sono state in carcere in periodi diversi dalla gravidanza.

Sono segnalati problemi legati all’ambiente sfavorevole quali: locali poco salubri, malattie infettive, ecc., bassi standard di igiene. Vengono segnalati anche alcuni effetti patologici ambientali sul bambino che variano da stati di irrequietezza a crisi di pianto frequenti ed immotivate. La difficoltà di addormentarsi è frequente come pure i risvegli improvvisi durante la notte. Si riscontrano inoltre inappetenza e significative variazioni di peso, sia in eccesso che in difetto. Di difficile valutazione è l’entità del danno emozionale e relazionale.

Si possono distinguere le cause da "danno carcerario" in:

 

Fattori contestuali

 

Fattori Sanitari

 

 

Fattori Generali

 

 

Di fatto nel bambino-detenuto si sviluppano modalità relazionali particolari, in quanto il rapporto madre-figlio è soggetto ad ingerenze del personale di sorveglianza, del regolamento, delle vicende giudiziarie e delle frustrazioni personali. La minore tutela della figura paterna nel suo ruolo genitoriale appare essere un ulteriore grave problema per lo sviluppo del1’affettività del bambino, in quanto raramente tale figura viene contemplata quale pari opportunità rispetto alla madre. I bambini vivono il dramma della separazione dal genitore e le difficoltà individuali successive di adattamento ad un diverso contesto affettivo. Biondi segnala il grosso impatto che sembra avere sullo sviluppo del bambino il momento del distacco coatto dalla madre, cioè dopo i tre anni.

Nel 1998 è stato attivato in via sperimentale, con la collaborazione della Direzione del carcere di Monza, un’iniziativa denominata "Infanzia in Carcere", con l’obiettivo di diminuire il livello di stress cui i bambini sono sottoposti all’interno del carcere. All’interno del penitenziario è previsto un asilo nido, con personale volontario, per offrire al bambino positive esperienze relazionali attraverso il gioco e per facilitare alle madri la creazione e/o il mantenimento di una situazione spazio-temporale personale. Il progetto prevede anche la creazione di una ludoteca come luogo per un colloquio facilitato dal gioco con i genitori.

Un’altra iniziativa altamente qualificante realizzata dal volontariato a Roma presso il Carcere Femminile di Rebibbia, è quella dell’Associazione "A Roma Insieme" i cui volontari, una o due volte a settimana, portano in uscita esterna i figli delle detenute ricoverati presso il nido penitenziario interno. D’altra parte però, associazioni come il Tribunale del Malato, continuano a non essere autorizzate all’ingresso testimoniando la durezza del regime. Sporadiche iniziative simili sono segnalate anche presso le quattro sezioni femminili degli istituti per minori di Roma, Nisida

(NA), Milano e Torino dove accanto al ginecologo opera anche il pediatra.

Un problema che merita di essere evidenziato è quello che i bambini in visita dall’esterno ai genitori detenuti vengano molto spesso sottoposti a perquisizioni personali alla ricerca di armi o droga. Tale pratica non risolve il problema delle eventuale presenza di armi, siringhe o droga all’interno degli istituti, ed è pertanto da considerare quanto meno inutile, non considerando i risvolti umani della sua applicazione.

Il 6 febbraio 2001 è entrata in vigore la legge sulle detenute madri "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori", dove viene finalmente riconosciuto l’inalienabile diritto del "bambino-detenuto" alla libertà, all’affettività e al rapporto con la madre.

Di fatto si sottolinea con forza che la presenza di bambini residenti in strutture penitenziarie appare come una pratica contraria ai diritti umani più elementari sia nei riguardi del bambino che del genitore se detenuto.

 

Immigrati e salute mentale

 

Secondo ricerche sui soggetti, immigrati in Italia da meno di un anno, si evidenzia l’assenza di psicopatologie gravi e la sostanziale sovrapposizione del profilo sanitario degli immigrati con la situazione italiana, "confutando il mito dell’emigrante portatore di malattie", anche sul versante della salute mentale. Numerose altre ricerche condotte all’estero dimostrano che i disturbi psichici negli immigrati tendono a presentarsi con maggiore evidenza dopo uno o due anni dall’ingresso nel paese di immigrazione, manifestandosi attraverso un quadro clinico ricorrente, costituito da patologie psichiche minori, sindromi ansiose, depressioni, manifestazioni di tipo psicosomatico, etc.

In generale gli studiosi di medicina delle migrazioni hanno dimostrato l’esistenza di reazioni psico-emotive allo stress, dovuto dalle condizioni scadenti ed emarginate di vita dell’immigrato. Fattori di rischio sono: mancanza di lavoro e reddito, professioni rischiose non tutelate, degrado abitativo (senza fissa dimora, coabitazioni forzate, promiscuità, ecc), assenza di supporto familiare, clima diverso, abitudini alimentari diverse, abitudini voluttuarie (fumo, alcol etc.), rischio di devianza (microcriminalità), discriminazione di accesso ai servizi sanitari.

La presenza di reazioni emotive sotto forma di manifestazioni psicosomatiche è forse il carattere più tipico delle patologie psichiche degli immigrati, con particolare peso nella componente femminile dell’immigrazione. Dai dati rilevati su oltre dodici mila immigrati che si sono rivolti nel decenni 1983-1993 alle strutture sanitarie della Caritas diocesana di Roma, risulta che i sintomi prevalenti sono quelli dell’apparato respiratorio, dell’apparato digerente e di tipo infettivo. La diagnosi di malattia psichiatrica risulta marginale, non superando l’1,7% sul totale delle patologie diagnosticate.

A questo riguardo va sottolineato come tra gli immigrati extracomunitari esista una diversa concezione della malattia tanto che la forte coesione tra individuo e comunità d’appartenenza, nonché la presenza di costruzioni culturali e simboliche di attribuzione della malattia mentale a fattori naturali o magici e sovrannaturali (fato, tabù, contagio per contatto, fatture e malocchio), determinano una sostanziale sotto utilizzazione dei servizi psichiatrici e di igiene mentale.

 

Il rapporto medico - detenuto: rischi e burn - out

 

Le condizioni ambientali in cui si svolge l’attività sanitaria sembrano essere responsabili del rischio di burn - out che può colpire il personale, nel quale è possibile notare una alta percentuale di assenteismo e una serie di disturbi sintomatici di uno stress emotivo quali ipertensione, abulia, etc.

Gli operatori intervistati da Andreano hanno riconosciuto che l’ambiente carcerario rappresenta "un fattore ansiogeno per il personale medico e paramedico". L’autore ha provato ad individuare alcune problematiche e ad analizzarle come possibili cause di difficoltà nello svolgimento dell’attività professionale.

Relazione tra medico e detenuto: si muove solo apparentemente secondo gli schemi di quella ordinaria che si instaura fra medico e paziente in quanto le manifestazioni patologiche stesse, in carcere, sembrano "diverse".

La posizione del sanitario è "diversa" in quanto codificata dall’Ordinamento Penitenziario ed è inserita in una organizzazione non prettamente di tipo sanitario, tanto che i suoi compiti esulano dalla normale applicazione della medicina. Il rapporto che si crea fra detenuto e medico non è di tipo "fiduciario" come si intende nella relazione con il paziente.

Questo però non significa che la fiducia non possa entrare nell’operare del medico penitenziario, ma costui deve essere messo nella condizione di rispondere adeguatamente alle richieste "accettabili" del detenuto e, sopratutto, che non si ponga in una condizione di conflitto con lo stesso. Di contro l’attività medico - legale, svolta dal personale sanitario, difficilmente fa si che il detenuto veda nel medico solo la persona che è li per curarlo.

Di fatto il sanitario è "il punto di riferimento di problematiche che non sono sanitarie perché il medico è l’unico interlocutore con cui il detenuto riesce a parlare e ad esprimersi", diventa cioè la persona sulla quale il detenuto scarica le frustrazioni e le problematiche ambientali, - paziente "speciale": cioè" una persona che si vede circondata da avversari in un ambiente innaturale", con manifestazioni anomale e richieste non prettamente sanitarie.

Sanitarizzazione dei problemi: è la tendenza, in ambiente carcerario, a risolvere le situazioni attraverso l’intervento medico. "Un problema che non si risolve, dal più piccolo al più urgente, diventa un problema sanitario. Il detenuto non riceve ciò che deve ricevere, si arrabbia, si taglia, non dorme, si agita. Si chiama il medico ma non si risolve il problema."

Le richieste sono le più disparate: dal cambiare cella, alla possibilità di telefonare, oppure poter parlare con un Magistrato. La non risposta può determinare una manifestazione di protesta che si traduce sempre in una situazione sanitaria. Ovviamente non è nell’ambito medico risolvere questi problemi per cui l’utilizzo degli psicofarmaci diventa uno dei mezzi possibili per riportare la tranquillità nella sezione. Ma anche la stessa Amministrazione, a volte, cerca di ridurre gli eventi critici a problema sanitario: "Se uno protesta la prima cosa che dicono è: "chiamate il dottore perché è agitato. Nei rapporti risulta che il detenuto si è agitato. Se poi uno invece di avere una crisi di agitazione, esce fuori dai binari si dirà che: ‘in stato di agitazione è stato necessario contenerlo e quindi ha riportato... è stato chiamato il dottore."

In questo modo si cerca di far sottostare l’intervento medico e farmacologico alle necessità di sicurezza e disciplina del carcere.

Medicalizzazione impropria: esiste la strumentalizzazione ad opera del malato per ottenere vantaggi. Il detenuto può aggravare le sue reali condizioni o simulare uno stato patologico tanto da arrivare all’autolesionismo per ottenere un ricovero o altro beneficio, in quanto il medico penitenziario esprime parere in relazione a provvedimenti che incidono sul corso della detenzione (ricoveri, trasferimenti, incompatibilità, etc,).

E lo stesso medico "vive in sé questa ambiguità di essere medico curante e, un minuto dopo, medico legale del suo paziente." L’ambivalenza del ruolo istituzionale "interferisce, crea un’ambiguità nel rapporto. Il cittadino detenuto deve vivere il proprio medico come quello che lo cura non come quello da cui può dipendere qualcosa. Lo stesso medico vive ambiguamente il suo ruolo. Non si può sostenere il paziente se questo ti può vedere come parte del sistema" - competenza clinica: è necessario "che il medico penitenziario abbia occhio clinico vero sia per essere terapeutico nell’intervento, sia per capire una simulazione".

Le risposte emotive della persona, il suo stesso comportamento possono essere discriminanti: "Può sembrare un paradosso ma se veramente c’è una patologia il detenuto si fida poco del medico. Dà più noia (tra virgolette) in termini di richieste, la persona che vuole strumentalizzare la propria situazione. Il malato vero, in genere, non dà fastidio a nessuno". Si tratta di un ruolo difficile in quanto il sanitario si trova a rivestire il ruolo medico - legale con tutti i relativi oneri e senza essere, in senso pieno, un componente effettivo dell’apparato penitenziario, anzi viene considerato come "un sottoposto" per quanto riguarda l’osservanza delle direttive e, al tempo stesso, un "libero" professionista.

Il problema dunque è sostanzialmente di conservazione di un’autonomia di giudizio tale che "Il medico che deve lavorare in carcere non deve pensare di lavorare in carcere. Deve pensare a fare il medico e basta. Non deve condizionare in qualche modo le sue scelte al fatto del detenuto. Non deve pensare che la persona possa essere un simulatore, a meno che non arrivi scientificamente a quella convinzione".

Il suggerimento è rivolto alla separazione dell’aspetto medico - terapeutico da quello medico legale, al quale va preposto personale esterno."Io, medico curante, non posso diventare medico di parte dell’autorità contro il detenuto esprimendo un parere avverso alla sua domanda: È incompatibile? Io devo rispondere al perito che accerto le condizioni. Farà lui le conclusioni".

 

Malattia e morte dietro le sbarre

 

Ogni giorno nelle 212 carceri italiane tre detenuti tentano il suicidio. In un anno si verificano invece 1500 tra omicidi, ferimenti, incendi. Mentre quasi 6 mila carcerati l’anno mettono in atto lo sciopero della fame.

Il 13 aprile 2000, un uomo di 50 anni, Angelo Audino, è morto in una cella del Centro diagnostico terapeutico del carcere delle Vallette di Torino. Era stato arrestato ad aprile del ‘99, ma dopo alcuni mesi era stato ricoverato in ospedale e, a novembre, trasferito agli arresti domiciliari per le sue gravissime condizioni di salute. "Ipertensione arteriosa essenziale severa, cardiopatia ischemica monovasale e pregresso infarto miocardico con retinopatia causata dalle conseguenze", hanno detto i medici. Trascorse 23 ore a casa, era stato riportato in carcere per scontare una vecchia pena. Lì, le sue condizioni si erano aggravate e, la sera prima del decesso, gli era stato notificato l’ennesimo rigetto dell’istanza di differimento pena con la motivazione che le patologie di cui era sofferente sarebbero state controllabili in ambito carcerario. Quando il medico è intervenuto, il detenuto era già morto.

Il 1° maggio 2000, una donna di 28 anni, Giovanna Franzò, è morta nell’ospedale di Ragusa per un ascesso ai denti non curato. All’ospedale era giunta tre giorni prima, proveniente dal carcere della città, dove la donna, condannata a 7 mesi per furto, stava espiando la sua pena. Dopo settimane di sofferenze - il collo ingrossato, la febbre alta, il respiro sempre più affannoso i medici del carcere hanno capito che la donna stava morendo e si sono decisi di ricoverarla in ospedale, la Tac ha rivelato l’evoluzione dell’ascesso dentario in una "mediastinite necrotizzante", Dopo due interventi chirurgici, la giovane vita di Giovanna Franzò si è spenta per sempre.

Il 20 maggio scorso, un uomo di 31 anni, Vincenzo Spina, si è impiccato nella sua cella del reparto "G7" dove si trovano i detenuti in regime di art, 41 bis (altissima sorveglianza e contatti limitati) del Nuovo Complesso del Carcere di Rebibbia. Stava scontando una pena all’ergastolo per omicidio, il suo "fine pena: mai", si è risolto nell’arco di dieci anni.

Nella notte tra il 23 ed il 24 giugno, Eleonora Manna è morta di infarto nella sua cella nel carcere di Rebibbia. Il 29 giugno, un giovane marocchino si è ucciso nel carcere di Modena, impiccandosi all’interno della cella di transito nella quale era detenuto. Era stato arrestato il giorno prima per resistenza a pubblico ufficiale, e aveva precedenti penali per droga, l’udienza di convalida dell’arresto era prevista il giorno dopo la sua morte, Il 15 luglio, Giovanni S., 44 anni, detenuto da un anno nel carcere di Torre del Gallo (Pavia), si è suicidato.

Si è stretto al collo la cintura dei pantaloni e, fissata alle sbarre di alluminio del letto a castello, si è lasciato soffocare fino alla morte, Giovanni S. era stato arrestato per spaccio di droga e una rapina e sarebbe dovuto uscire nel 2002. Non ha lasciato nessun messaggio. ma si era confidato con i compagni di cella sulle speranze di un’amnistia odi un indulto.

Nell’apprendere dai telegiornali di mezzogiorno dell’uccisione di un maresciallo dei carabinieri in Puglia, ha temuto che la discussione politica sulla possibilità di un atto di clemenza si sarebbe arenata, Alla Camera Penale di Milano è stato depositato un documento in cui è ricostruito il caso di A. Orso morto in carcere ad un anno di distanza dall’istanza di richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Condannato a 4 anni e 6 mesi per un fatto di abusi sessuali, dopo l’arresto aveva subito chiesto il differimento della pena per gravi motivi di salute.

L’istanza era stata respinta in quanto una perizia aveva stabilito che la cardiomiopatia dilatativa di cui era affetto poteva essere curata in carcere. Il 25 gennaio 2001 Urso aveva avanzato richiesta di arresti domiciliari e il 5 maggio era stato ricoverato all’Ospedale di Monza per un grave scompenso cardiocircolatorio. Tre giorni dopo il Tribunale di Sorveglianza aveva fissato per il 10 luglio l’udienza per decidere l’eventualità degli arresti domiciliari. Però Urso è morto il 5 giugno 2001. Sono solo gli ultimi casi di morti in carcere. Stando ai dati, nel 1999, sono state 83 le persone morte dietro le sbarre e 59 i suicidi. A questi casi di persone morte tra le mura del carcere, vanno aggiunti almeno altri 100 detenuti morti sulle ambulanze o dopo il ricovero in ospedale. Sempre nel 1999, nelle carceri italiane sono stati inoltre registrati 9.794 casi di malattie infettive; 5.000 sieropositivi; 6.536 casi di autolesionismo; 920 tentativi di suicidio; 1.800 ferimenti; 2 omicidi, 50 incendi; 5.500 scioperi della fame; 4.800 episodi di rifiuto di farmaci e terapie. "Chi entra in carcere non perde solo la libertà ma anche la salute", ha dichiarato Francesco Ceraudo, presidente dell’Amapi, l’associazione dei medici penitenziari.

 

La comunicazione negata: il suicidio

 

Con Tamburino si concorda che "gli atti di autolesionismo si prestano ad interpretazioni diverse. Spesso rinviano ad una certa teatralità, frutto del bisogno di catturare l’attenzione per instaurare un rapporto: un bisogno prepotente quando ci si sente abbandonati nel ventre di un’istituzione. Non così il suicidio, che non prevede nessun rapporto ulteriore ed anzi tronca definitivamente ogni relazione. Il suicida dichiara - senza ambiguità, senza alternative - che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione [...] il condannato cessa di essere un recluso per affermarsi, attraverso la radicale negatività del gesto, come essere umano [...] il suicidio appartiene alla storia dell’uomo, dentro e fuori le prigioni. Se si guarda al detenuto come a un caso patologico anche quando si suicida, si insiste nell’errore di non vederlo come persona e ci si condanna ad una comprensione limitata".

Di fatto ho scelto di scrivere del suicidio in questa sezione "aree problematiche della tutela della salute" proprio per non confondere questo estremo gesto di resistenza con una qualsivoglia patologia. Il rischio che si corre è quello di appiattire, di "sanitarizzare" questa sola libertà, magari forse paradossalmente indotta anch’essa dall’istituzione, di negare questa ribellione.

Di non volere ascoltare per l’ennesima volta questo urlo silenzioso e perforante la nostra umanità!

La media nelle carceri italiane è di un suicidio alla settimana!

E l’istituzione vive questo atto di libertà come uno scacco, un fallimento. Per fronteggiare questa problematica dal 2000 il Dipartimento ha creato una Unità di monitoraggio (UMES) per esaminare individualmente i casi di suicidio avvenuti, per tentare di capire cosa è successo, per vedere cosa si è fatto e cosa si può fare ancora. Dall’analisi condotta emerge che alcune persone erano state segnalate come depresse o a rischio mentre i casi più frequenti riguardano persone di cui nessuno sospettava. Sono segnalati casi di persone alle quali mancavano pochi mesi alla scarcerazione o che fino a pochi minuti prima giocavano e scherzavano con i compagni di cella. Esistono poi morti che potremmo definire senza causa, delle quali nessuno parla, che non rientrano in alcuna statistica. Sono le morti di ex-detenuti o in procinto di essere liberati, sono le morti "dentro" che non hanno spiegazione medica. Sono le morti di coloro che in carcere, paradossalmente hanno lasciato la vita, la speranza, non ritrovano più loro stessi. Sono coloro hai quali Zeus ha tolto l’anima e lasciato l’angoscia di essere liberi!

È "quel non saper uscire - non sapere e non poter uscire - dalle relazioni in cui si genera la propria sofferenza e dalle forme di auto-rappresentazione che la moltiplicano: questa è la prigione estrema".

In una analisi si legge "Restituito al mondo esterno dopo essere stato orrendamente mutilato nel suo sé - relazionale, chi è stato a lungo ospite di un’istituzione totale non ha più alcun luogo affettivo e realizzativo verso cui dirigersi e in cui ritrovarsi. Perso alla possibilità stessa di una sua autonoma reintegrazione in essi". "Di qui quello spaesamento doloroso, quello sbigottimento ineffabile per il rifiuto totale che il mondo esterno gli oppone: quel diventare ciechi non appena raggiunta la luce".

Come dicevamo sopra molti suicidi e morti non spiegabili avvengono in prossimità della scarcerazione o sulla porta del carcere: "Molti reclusi, perfettamente sani fino ad un certo giorno, si spengono repentinamente come da malattie mortali apparentemente inspiegabili. Il modo attraverso cui la medicina parla di queste morti - anoressia mentale, leucemia fulminante, cancro polmonare... - occulta la responsabilità sociale che ne è alla base e la catastrofe relazionale che le genera. Ecco, l’azione reclusiva non si limita ad amputare i rapporti sociali concreti del recluso, poiché, abbattendosi contro gli universi simbolici che interessano il suo Se-relazionale, li spinge al crollo".

Riflette Tamburino che "forse è preferibile creare situazioni che facciano comprendere che la vita va apprezzata anche da chi è in carcere. Fattori positivi in questo senso sono il valore che viene dato alla salute, il riconoscimento di un significato della pena che si sconta, la prospettiva di una speranza al di là delle sbarre".

Ma, di fatto, gli unici provvedimenti che vengono messi in atto nei confronti di chi tenta il suicidio sono gli stessi che verrebbero presi nei confronti di un banale e qualsiasi malato di mente (!): visita del medico, colloquio con lo psicologo e con l’educatore, visita psichiatrica. Alla fine adozione di una misura preventiva che spesso consiste nell’isolamento o nella grande sorveglianza!.

"Ecco: qui ci vorrebbe un sogno, uno spazio personale di attività, una nuova speranza, dalla quale sussurrare a se stessi: Alzati! Alzati e cammina - questa è la strada. Va detto ancora che il crollo di tutti gli universi simbolici può giungere anche dopo molti anni di vita reclusa, quando quell’Altrove alle cui fonti il recluso si era finora dissetato, per una ragione qualunque, s’inaridisce e dissecca. E a questo punto non resta che un’unica libertà: la libertà di morire".

Tamburino riflettendo si chiede: "Come si può lavorare nella direzione di una ecologia del carcere? "Ecologia" significa una quotidianità più sana; significa prevenzione dello stress del personale [...] significa disporre di strutture che liberino dall’incubo sicurezza per dedicarsi maggiormente alla cura di aspetti di vivibilità". Conclude sottolineando che "la capacità di ascolto dell’istituzione talora serve a poco se manca l’interlocutore rappresentato dai compagni di vita del detenuto a rischio. La prevenzione del suicidio ha bisogno dunque di una comunicazione tra detenuti e istituzione".

Ma non dobbiamo mai dimenticare che la morte di un detenuto è un problema per il carcere che deve tutelare la vita e mantenere, in qualche modo, l’integrità fisica dei suoi ospiti. Ma per motivi molto più profondi il suicidio è lo scacco matto del detenuto ai dispositivi di sorveglianza, di sicurezza, alla fagocitazione carceraria. È la sconfitta dell’istituzione che ha lasciato uno spiraglio da cui è passata l’individualità non coartata. Infatti il suicidio carcerario viene descritto come "devianza che si manifesta non tanto attraverso la condotta criminale, quanto nella forma della condotta del ‘follÈ, ossia del deviante delle norme residuali".

 

La "banalità" della salute

 

Perdendosi nel mare della comunicazione globale a volte si trovano paesi non dimenticati dai topi..." Aiuto, sto male! Potrebbe sembrare un vecchio titolo di giornale che parla del governo italiano, invece no, è la realtà del modo in cui si pone il problema della sanità all’interno di San Vittore, struttura ormai in come irreversibile. Elencheremo ora quello che giornalmente accade nei tre piani di questo paese dimenticato dagli uomini e da Dio.

Solo topi e gatti vivono indisturbati e a proprio agio in quest’area ben fortificata da muri, sbarre e agenti. Ci piacerebbe, prima di ogni cosa, potere avere chiaro dove finisce la responsabilità della direzione e dove comincia quella del clero, poiché è una responsabilità che le due istituzioni si rimbalzano come una palla pesante e sempre in gol.

Il medicinale più usato e in alternativa a qualsiasi terapia è la cosi antica camomilla; infatti, quando una compagna sta male e chiede aiuto, si sente rispondere "camomillati". Tutte le detenute hanno in comune un divieto d’incontro, con chi? Ma con il "medico" naturalmente; forse bisognerà fare una specifica domandina al GIP? Non riusciamo più a distinguere, camminando per le sezioni, quali siano le scene felliniane e quelle lageriane. Se poi volessimo parlare dell’isolamento sanitario, ci troveremmo in grave difticoltà non sapendo da che parte cominciare.

È un isolamento solo per mettere in pace le coscienze dei sanitari perché la cella è sul piano, le docce (solo 2) sono le stesse, il disinfettante è acqua all’80% e l’aria è comune; quindi di isolamento rimane solo il nome.

Per malate non gravissime ci siamo sentite dire dai medici di formare dei gruppi, per non creare troppo disturbo o lavoro, in modo che il dottore possa effettuare un'unica visita. Pensiamo che neppure il peggiore dei veterinari si comporterebbe cosi con un gregge di pecorelle.

Inoltre, siamo convinte che i tagli della sanità partano da qui, considerando anche che gli sponsor dei medicinali in uso sono pochi e sempre gli stessi: "Aulin - Velamox" (sono i primi in graduatoria ed efficaci per tutti i mali).

C’è comunque anche la possibilità di essere ascoltate e visitate quasi tempestivamente quando entra in campo la parola spauracchio: "dirigente sanitario". Ma non sempre si ha la voglia di passare a questo genere di minacce o compromessi.

Forse ha ragione il nostro amico quando dice che è presunzione voler caricare il peso di un cavallo su di un piccolo pony. Comunque, uscendo nei corridoi per andare a prendere il solito Aulin, abbiamo notato che si vedono i primi risultati dell'effetto Topo, (casi di leptospirosi - n.d.r:): ci sono i corridoi stipati di mobili,forse stanno imbiancando e disinfettando in modo serio? Se un topo può fare tutto ciò, ben venga!"

 

Perché non si parla di sessualità?

 

Parlare di sessualità nelle istituzioni totali è parlare di libertà, è infrangere il tabù del "diverso", di colui che nel rivendicare la sua sessualità ti sbatte in faccia che è uguale a te, uomo o donna, persona con un corpo. Il diverso è sempre stato considerato un’astrazione ma fin troppo vero nella sua esclusione: i matti, gli handicappati e i delinquenti fanno parte dell’immaginario collettivo volto a tutelare una moralità di giustizia. Le sbarre delle istituzioni e i cancelli della nostra ipocrisia vogliono cancellare il corpo delle persone colpevoli di diversità. La sessualità poi non viene mai intesa come fattore atto a contribuire a quello "stato di benessere psico-fisico" definito dall’OMS come stato di salute.

Deleuze sostiene che "lo debbo avere un corpo, è una necessità morale, un’esigenza".

Molta letteratura e cinematografia raffigurano la sessualità dei reclusi come estrema, quando non brutale, confinante con la sopraffazione, subdolamente perversa, Il detenuto affetto da priapismo? Alla costante ricerca di oggetti di consumo sessuale?

Ma in carcere "come i bambini soli si creano talvolta un compagno di giochi immaginario, così i reclusi, sessualmente deprivati, s’infiammano per le donne del vento", "L’amante immaginaria". E le fate e i fantasmi fanno sì che si abbia una torsione della sessualità e stati di trance autoerotica, E nei colloqui "egli può accarezzare l’amata con suadenti parole o farsi fare moine dalle sue. Loquizzazione dell’eros. Dietro la parete di vetro la guardi, l’addetta al controllo visivo non sente [...] territori auditivi dell’intimità, riscoperta del tono nel suono.

Analogia con gli stati [...] di sogno lucido. Mentre una parte di se si tende in un controllo ipervigile della situazione circostante, un’altra parte si estranea da tutto e si perde nel gioco della relazione più intima e affettuosa." "Sogno di eccitazione erotica [...] sensazioni di un corpo, perdute e ritrovate, che in questo lucido sogno si elaborano in fantasia guidata, portando a scioglimento l’ingorgo dell’eccitazione". Alla sinistra della sua branda, sul muro, proprio all’altezza degli occhi quand’era in posizione sdraiata aveva scritto... nomi. Trecento nomi... donne di carta e donne di scrittura... ne sceglieva uno. Era questo il suo mantra per entrare in trance: la ripetizione estenuante di quel nome".

Gallo e Ruggiero concordano con Curcio e altri nel sostenere che i surrogati di donne che invadono ogni angolo di celle altro non sono che una risposta alla paura della perdita completa della propria dimensione sessuale a causa della deprivazione carceraria, "ai detenuti si impone una sollecitazione forte che colmi il vuoto degli stimoli, che scongiuri lo smarrimento totale di ogni desiderio". Alla torsione della sessualità si contrappongono due momenti, "intenzionalmente curativi":

In base ad una ricerca condotta da due sessuologi nel carcere penale di Porto Azzurro, l’immaginario erotico dei detenuti per il 68% è collegato al tempo precedente la carcerazione; un 15% è legato all’effetto prodotto la lettere di mogli o amiche; un 27% dipende da immagini televisive; il restante 18% si accontenta di riviste pornografiche.

"La sensibilità erotica subisce in carcere una torsione violentissima. L’assenza di relazioni, prolungata, genera una difficoltà a percepire gli altri come persone concrete. Questa difficoltà può essere la premessa per la totale cancellazione dell’altro; per la cancellazione del suo erotismo e della sua sessualità. Terribili le implicazioni: una cultura che non vede l’altro come persona concreta ha, tra i suoi esiti possibili, lo stupro".

Nadia e Vincenzo lottarono perché in carcere ci fosse una zona franca, ma dicono che "si può arrivare a vedere come una debolezza il nostro atteggiamento: affermare l’importanza dei propri sentimenti significa in realtà fare una scelta individuale, oppure rischiare di finire nel ridicolo, oppure ancora andare incontro ingenuamente alle inevitabili vessazioni supplementari che il carcere riserva ad ogni pensiero messo a nudo". Sostengono inoltre che l’affettività e il sesso non devono rientrare in una logica premiale perché "in questo modo anche il rapporto tra i sessi viene a fare parte delle politiche lealizzatrici delle coscienze, diventa premio o tortura bianca per la conversione".


Inchiesta sull’assistenza sanitaria e sulla salute

all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi - Padova

 

Presentazione

 

L’inchiesta condotta all’interno del carcere Due Palazzi si inserisce nel "Progetto Obiettivo per la tutela della salute dell’anno 2000" che espressamente prevede, fra le altre cose, che le A.S.L. predispongano "una ricognizione dei rischi per la tutela della salute" nelle carceri di rispettiva competenza con il coinvolgimento degli stessi detenuti e degli operatori penitenziari.

Il Veneto non partecipa alla sperimentazione avviata e, nelle carceri di Padova, non è stata finora effettuata alcuna ricognizione da parte delle A.S.L. per accertare la natura e la qualità delle prestazioni sanitarie erogate alla popolazione detenuta.

Il Centro Studi del Centro di Documentazione Due Palazzi prende spunto dalle indicazioni contenute nel Progetto Obiettivo, per realizzare, in collaborazione con la Direzione dell’Istituto, i dirigenti sanitari e il Gruppo Abele di Torino, una ricerca con un questionario anonimo distribuito ai detenuti nel mese di ottobre del 2001, i cui risultati saranno inviati al Ministero della Sanità.

Il valore di quest’iniziativa è molto alto in quanto è stata seguita in tutte le sue fasi dai detenuti: dall’ideazione del questionario all’elaborazione statistica (sia pure con la supervisione dei volontari e di altri operatori). Per altro, questa ricerca dimostra che non servono grandi finanziamenti per portare a termine delle rilevazioni serie e strutturate.

I questionari sono stati distribuiti a 680 detenuti: 420 sono stati i questionari compilati, pari al 62% della popolazione coinvolta (i presenti nella Casa di Reclusione al momento della rilevazione). I detenuti-redattori di Ristretti Orizzonti, hanno illustrato il questionario agli intervistati e hanno poi curato anche l’elaborazione dei dati.

Il questionario è composto da 75 domande, molte delle quali prevedono anche risposte aperte, per dare agli intervistati la possibilità di esprimere opinioni ed esigenze personali, ed è strutturato sulla falsariga dell’ideale percorso detentivo di una persona con problemi sanitari nella norma (per lo standard del carcere).

Il questionario è strutturato in sezioni:

 

Informazioni socio-anagrafiche

 

Sono gli italiani a rispondere per la maggior parte (70%) al questionario. La metà dei detenuti è celibe, il 29% è coniugato e il 18% sono separati o divorziati. Il 49,5% ha figli. Questo significa che un 2,5% ha figli senza un legame matrimoniale. Il 33% è alla prima esperienza di carcerazione, il 61% è recidivo. L’87,6% dei detenuti è definitivo.

 

Ingresso nel carcere

 

All’ingresso al carcere i detenuti sono sottoposti obbligatoriamente ad una visita medica "mirante ad accertare eventuali infermità fisiche o psichiche" (art. 11 O.P.). Nel 73% dei casi la visita da parte del medico avviene lo stesso giorno dell’ingresso, nel 16% entro la settimana successiva, ma l’8% dice che non è mai stato visitato.

Per quella che è la nostra conoscenza, la visita medica di primo ingresso viene sempre fatta. Per altri versi può accadere che sia talmente frettolosa e formale per cui molti non ne conservano il ricordo, soprattutto a distanza di anni. Sta di fatto che, magari alla prima carcerazione, si sia talmente sperduti da rimuovere i "primi momenti" del carcere. La prima visita consiste nel 42% dei casi in una visita medica generale, e nel 49% nella registrazione dei dati antropologici, dati che dimostrano come non esista un protocollo standard di visita d’ingresso.

All’ingresso il 59% viene sottoposto ad esami di laboratorio. Anche qui non sembra esistere un protocollo standard in quanto sono presenti dati disomogenei: 1’88% dei soggetti è sottoposto ad esame del sangue, il 50,6% all’esame urine. Il consenso scritto è stato chiesto nel 51,4% dei casi per la ricerca HIV. L’esame HIV è stato effettuato dal 34,4% degli intervistati, acconsentendo con una dichiarazione scritta.

Per quanto riguarda poi l’esito degli esami è stato comunicato oralmente dal medico nel 58,6% dei casi, il 17,6% per iscritto e ben il 19,6% non riceve alcun tipo di informazione a tale riguardo. Capita pure, ma in bassa misura (3%) che l’esito venga comunicato da un infermiere o da altra persona. All’ingresso in carcere 44 persone (17,6%) hanno scoperto di avere una qualche malattia, comunicata in modo formale dal medico nel 41% dei casi, in un colloquio prolungato, con un adeguato sostegno psicologico da parte del medico, nel 36%. Il ricorso alla diagnosi scritta si ha solo nel 16% dei casi. Ma anche qui le risposte alla domanda successiva smentiscono questi dati in quanto ben il 73% ritiene di non avere goduto di un adeguato supporto psicologico sia durante la comunicazione dello stato di malattia sia successivamente. Solo l’11% si ritiene soddisfatto.

All’ingresso in carcere il 59% dei detenuti riceve in dotazione, prevalentemente, oggetti d’uso domestico (stoviglie, secchio, etc.), il 17% prodotti per l’igiene personale. Praticamente assente la divulgazione di opuscoli informativi sulle leggi carcerarie e sugli aspetti sanitari.

 

Auto-aggressività

 

Sono state riunite in un’unica sezione del questionario le domande che riguardano le forme di protesta e rivendicazioni non violente, gli atti di autoaggressività e i problemi di natura psichica, in quanto espressioni di un disagio, difficilmente catalogabile e controllabile, che talvolta sfocia in gesti estremi, come il suicidio, e in altri casi determina il ricovero in strutture psichiatriche (O.P.G.).

Dai dati si evince come circa il 30% degli intervistati nel corso delle carcerazioni abbia fatto, una (14,7%) o più volte (15,2%), lo sciopero della fame. Sono autori di atti di autolesionismo il 17,8%, con una preponderanza di ferite da taglio (50,6%), seguita da inghiottimento di oggetti e detersivi (29%). La cucitura delle labbra risulta agita in 4 casi (5,3%). Da sottolineare che le ferite da taglio e la cucitura delle labbra sono praticate prevalentemente da stranieri, l’inghiottimento di oggetti metallici, detersivi, etc., soprattutto da italiani.

Il suicidio durante la detenzione è tentato in 35 casi (8,3%) e da 32 soggetti (7,6%) mentre erano in stato di libertà. Su 420 soggetti 28 (6,6%), durante la carcerazione, sono stati ricoverati per motivi psichiatrici. Non è specificato il luogo di ricovero! Segnalano il ricovero in strutture psichiatriche, in periodi di non detenzione, 43 persone (10%).

 

Rapporti con il personale sanitario del carcere

 

Questa sezione del questionario tocca uno dei punti dolenti dell’assistenza sanitaria in carcere. Per gli stranieri la comunicazione con i sanitari è chiara nel 33% dei casi, a volte (10%) richiede l’aiuto di un "paesano". Non lo è nel 12%, ma la percentuale di non risposta a questa domanda è alta (55%). La stessa percentuale di non risposta riguarda le problematiche dovute alle diversità religiose o culturali nel rapporto con i sanitari. Con questi sono segnalati problemi dal 20% dei detenuti stranieri. Uno straniero scrive che "non devono esserci differenze etniche o economiche. Dovrebbero essere i medici a chiamare periodicamente i detenuti e non che debba essere il detenuto a chiamarli, quando si sente male: quanti malati in meno ci sarebbero".

In generale i detenuti chiedono raramente (45%) di essere visitati dal medico dell’istituto, con un indice di soddisfazione che per il 63% degli intervistati è molto basso (molto buono solo per il 6%).

Il problema della superficialità delle visite, che siano quelle del medico o dello specialista è lamentato da molti. Ad esempio, un intervistato scrive che "servono visite mediche più frequenti e più complete, solo così si potrebbe prevenire qualsiasi malattia. Di solito, ora come ora, descrivi al medico il sintomo e lui ti prescrive una cura, senza nemmeno visitarti". Comunque questi episodi di non attenzione al malato sono "normali" negli ambulatori sia dei medici di base sia degli specialisti!

Il rapporto tra medico e paziente-detenuto è spesso falsato dal timore che quest’ultimo simuli il malessere, per ottenere vantaggi di vario tipo: "basterebbe un po’ di buon senso per distinguere il vero malato da quello immaginario", Ma intanto un intervistato racconta: " Ho dolori fortissimi alla testa, ormai da tre anni, e chiedo ogni giorno una visita ospedaliera ma non la ottengo perché pensano che stia fingendo".

Per quanto concerne gli incontri con lo psicologo si nota che è solo il 22% a farne richiesta. La maggior parte degli intervistati considera questi incontri come non rispondenti alle proprie esigenze in quanto in numero non sufficiente. La seconda parte della sezione introduce un altro tema caldo, quello dei tempi d’attesa per essere visitato da uno specialista, Anche fuori dal carcere queste attese, a volte, durano mesi, solo che magari si può cambiare ambulatorio. I tempi di attesa variano a seconda della specialità: per lo psichiatra si attende meno di 7 giorni mentre per una visita dentistica la maggior parte dei soggetti attende anche 90 giorni e più, Se vengono prescritti esami clinici da effettuarsi fuori dall’istituto i tempi di attesa sono molto lunghi, di media dai 30 ai 90 giorni.

Il maggior numero di richieste di visite specialistiche è per il dentista. Gli interventi non sembrano avere continuità nel tempo dopo la prima visita. Raramente sembra esistere un controllo. Infatti, un intervistato scrive che ha visto "il dentista una sola volta in sei mesi. E poi le cure non sono idonee: i denti vanno curati, non estratti. Se una persona rimane in carcere un po’ di anni esce senza denti". Va detto che il dentista lavora in condizioni di perenne emergenza, perché un po’ tutti hanno bisogno del suo intervento (circa l’80% degli intervistati) e molti frequentemente (più di 100 persone): la sua presenza sarebbe necessaria ogni giorno, invece che una, due volte la settimana, come accade ora.

Le visite psichiatriche mantengono invece un’alta percentuale di controlli periodici. Anche l’oculista sembra mantenere una continuità di controlli periodici. Le patologie dermatologiche (seconde numericamente alle richieste dentistiche) sembrano godere di un controllo costante e periodico. L’indice di soddisfazione è basso per il dentista. Per l’infettivologo è molto più alta, come pure per l’ortopedico.

Il ricorso ad un medico di propria fiducia esterno è raro e per una minima percentuale di detenuti (11%). Come commento ricordiamo che nell’Ordinamento penitenziario, art. 11, comma 5, si legge che "L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati".

 

Uso di farmaci e diete

 

In carcere il ricorso ai farmaci, in particolare a quelli psicoattivi (terapia per dormire, antidepressivi, etc.), rappresenta la "soluzione più facile" per ogni problema di salute, quindi ne viene fatto un largo uso, Infatti, più della metà degli intervistati ha assunto o assume psicofarmaci.

D’altra parte, molti detenuti soffrono realmente di patologie che richiedono trattamenti farmacologici (e che richiederebbero anche un’alimentazione più adeguata di quella che offre l’Amministrazione), perché chi ha alle spalle storie di tossicodipendenza, di alcolismo, di deprivazione, di vita ai margini, non può che pagarne le conseguenze anche in termini di salute, Il 25% dei soggetti prima di entrare in carcere seguiva una terapia che prevedeva l’uso di farmaci particolari, che ha potuto, nella maggior parte dei casi, continuare in carcere, o con gli stessi farmaci o con farmaci equivalenti,

L’indice di soddisfazione per i farmaci prescritti in carcere è pari alla non soddisfazione. Dei farmaci, però, non sono state fornite informazioni sulla natura della composizione e sugli effetti collaterale nella quasi totalità dei casi.

I problemi emersi riguardano principalmente la difficoltà di ottenere i farmaci adatti e di poterli assumere nel momento in cui servono. Un intervistato scrive che "in carcere l’assistenza sanitaria non funziona, se non per le sole patologie a livello terminale e senza poi offrire cure adeguate, per mancanza di far ma ci adeguati".

Il che è spaventoso, perché in carcere non dovrebbero stare persone con patologie terminali! Speriamo sia solo un "modo di dire: terminali" e non in senso strettamente sanitario e medico! Per quanto riguarda poi l’accessibilità e la gratuità delle cure un altro intervistato scrive che "bisognerebbe poter acquistare (a proprie spese) qualsiasi farmaco che sia necessario, senza dover fare la trafila della richiesta di autorizzazione al direttore".

Un altro dice di soffrire di frequenti mal di testa e "per avere un analgesico devo aspettare 24 ore. In cella non è possibile tenere nemmeno una compressa d’emergenza, altrimenti prendi rapporto e conseguentemente perdi 45 giorni di liberazione anticipata" .

Per quanto riguarda i problemi legati alle diete si vede che solo in pochi casi (20%) è fornita dall’Amministrazione un’alimentazione adeguata. Una buona percentuale (32%) provvede a proprie spese. Certo è che la maggior parte (48%) lo vive come problema irrisolto. E "il vitto carcerario non è adeguato per chi deve rimanere detenuto a lungo: col tempo provoca patologie gastrointestinali e avitaminosi". Ma in particolare un intervistato dice: "Soffro di ulcera gastroduodenale. sono stato ricoverato e operato due volte per emorragie interne. Non mi è possibile seguire una dieta specifica".

 

Ricoveri sanitari

 

Il 15% dichiara di essere stato ricoverato all’Ospedale Civile, nel reparto "bunker", mentre il 10% afferma di essere stato ricoverato in un Centro Clinico Penitenziario. I casi di ricovero in corsia sono molto rari, la maggior parte dei quali con piantonamento.

 

L’informazione sanitaria

 

Nella quasi totalità i detenuti non sono mai stati coinvolti in campagne informative per la riduzione sia dell’uso degli psicofarmaci (71 %), a fronte di una grande richiesta di questi come di alcol (63%). Solo il 18% conferma di essere stato coinvolto in campagne informative sulle malattie infettive (HIV, epatite), sull’igiene alimentare, sulle malattie sessualmente trasmissibili e, solo il 16%, sull’uso di droghe. Molto importante è il dato sul bisogno informativo, cioè il numero delle persone che ritengono utili iniziative di questo tipo: 320 risposte affermative (76%) su 420 intervistati.

Anche dalle risposte aperte emerge con forza questa richiesta. Un intervistato, ad esempio, sottolinea come una "informazione sanitaria più accurata, anche per convincere la popolazione carceraria a non usare psicofarmaci: il malessere, in questo contesto, è più psicologico che fisico". Un altro evidenzia che "in carcere la salute non è tutelata prima di tutto perché l’igiene non esiste. Non esistono norme igieniche scritte che spieghino i problemi sanitari determinati dalla promiscuità". E un altro scrive che funziona solo "l’auto riduzione del danno", cioè non devi fare troppi casini, se vuoi evitare dispiaceri maggiori che non quelli causati dalle malattie. Qui non c’è assistenza psicologica ed il medico ti propina solo vari farmaci generici.

 

I problemi sanitari specifici dei tossicodipendenti

 

Una sezione del questionario è stata riservata ai detenuti con problemi di dipendenza da sostanze. Sono 235 (56%) gli intervistati che hanno dichiarato di avere fatto uso di una o anche più sostanze contemporaneamente, con al primo posto alcool (27%), cocaina (26%) e poi eroina (20%). Molto diffuso l’uso associato d’alcool e cocaina, ma anche di cocaina ed eroina. Prima di entrare in carcere ben 41 soggetti erano in trattamento metadonico: 27 a mantenimento e 14 a scalare.

All’ingresso in carcere usufruiscono di una terapia metadonica 60 soggetti: 14 a mantenimento, 46 a scalare. I soggetti hanno ricevuto la terapia metadonica in giornata o il giorno successivo nel 73% dei casi, negli altri hanno dovuto aspettare più giorni.

L’assunzione del metadone, pur necessaria per risparmiare ai tossicodipendenti le sofferenze connesse all’astinenza, sembra un’arma a doppio taglio come si comprende bene dalle dichiarazioni di alcuni intervistati: "Il metadone per me è un problema enorme che dovrò risolvere facendomi ricoverare, quando esco, per disintossicarmi. In carcere non puoi disintossicarti, non ti danno niente per calmare i dolori che conseguono all’aver preso il metadone per due anni". E ancora "ho scalato l’assunzione di 70 mg di metadone in soli 70 giorni, per mia volontà. Soffro di postumi d’astinenza e non sono adeguatamente aiutato". E si il problema dell’aiuto è fortemente sentito tanto che il rapporto con gli operatori del Ser.T. è vissuto in maniera contrastata: il 43% dei tossicodipendenti intervistati non ha mai fatto richiesta di incontrarli e gli altri non ne risultano particolarmente soddisfatti.

Di fatto nella Casa di Reclusione di Padova le prestazioni sanitarie di base, erogate direttamente dal Ser.T., sono garantite solo ad una ventina di tossicodipendenti, quelli in terapia metadonica di mantenimento, quindi in una condizione di tossicodipendenza attiva, La Sezione a Custodia Attenuata, attiva nella Casa di Reclusione di Padova, viene considerata vantaggiosa per i tossicodipendenti (71%), anche se in questa è detenuto solo il 10% dei tossicodipendenti presenti nell’istituto.

La condizione di tossicodipendenza è vissuta come discriminante dal 22% degli intervistati, anche se c’è chi dichiara che "bisogna separare i detenuti tossicodipendenti e malati dagli altri, metterli in sezioni diverse, cioè ogni sezione dovrebbe avere una sua categoria di detenuti". 64 (30%) tossicodipendenti sono nei termini per ottenere le misure alternative, altri 38 (18%), pur essendo nei termini, non riescono ad ottenerle e il 52% non ha i termini per richiederle.

L’informazione, poi, che la competenza per la cura dei detenuti tossicodipendenti è passata dal Ministero della Giustizia al Ministero della Sanità è conosciuta solo dal 35% dei detenuti! Anche perché, affermano, non è cambiato niente. L’uso di farmaci adatti per evitare episodi di overdose al momento della scarcerazione è sentito come importante dalla metà degli intervistati.

La tutela della privacy per quanto riguarda i sieropositivi all’HIV sembra non sia sempre mantenuta, anche se la metà degli intervistati non lo sa.

 

Il bisogno di assistenza socio-sanitaria dopo la scarcerazione

 

Le indagini che si svolgono in carcere, il più delle volte, trascurano ciò che avverrà dopo la detenzione, perché la competenza dell’istituzione termina nel momento in cui la pena è interamente espiata, Il questionario si è voluto occupare anche della fase di re inserimento nella società, che ovviamente è cruciale nel percorso di ogni persona scarcerata.

È stato chiesto agli intervistati di guardare con obiettività al futuro, valutando se all’uscita dal carcere potevano contare sul sostegno di qualcuno: le risposte incerte, "non lo so" sono state meno del 10%. Il 78% conta sui genitori, il 55% sul partner, il 45% sui parenti.

Dalle risposte si nota come viene sentita maggiormente necessaria l’informazione sulla ricerca di un lavoro, sui luoghi dove dormire e dove mangiare, sulle associazioni di volontariato. Si nota pure che ben 63 soggetti ritengono di avere bisogno di informazioni per entrare in comunità terapeutica! Sui Servizi Sociali del Comune le aspettative d’aiuto sono basse. E un buon numero conta solo su se stesso. Le percentuali medie sono sull’80%, per quanto riguarda il bisogno di sostegno concreto (economico, sanitario, psicologico, etc.).

Per quanto riguarda la tutela della salute, la metà degli intervistati ritiene utile al momento della scarcerazione di avere una relazione scritta sulle malattie e sulle cure effettuate durante la detenzione. E una dichiarazione, nella sua drammaticità, richiama ad una realtà che tanti fingono di non vedere: "Sono positivo all’H.I.V. e all’epatite C. Tra qualche mese esco, ma so già che fuori sarò abbandonato e dovrò tornare a morire in questo posto".

 

Problemi di salute denunciati dagli intervistati

 

La rassegna delle patologie presenti nella popolazione detenuta è molto ampia. In genere, si tratta di situazioni cronicizzate per mancanza di un’adeguata attenzione all’insorgenza dei primi sintomi del male (avviene più facilmente quando la persona è libera e, magari, conduce una vita "disordinata"), ma anche per la mancanza di controlli e cure tempestive.

Nelle domanda aperte nessuno dei partecipanti all’inchiesta ha dichiarato di soffrire di disturbi psichici: forse coloro che hanno problemi mentali non sono stati in grado di parlarne (per vergogna, paura, etc.), oppure l’autoconsapevolezza, al riguardo, è molto bassa.

Tra le malattie più frequentemente denunciate spiccano quelle cardiache e tutte le testimonianze raccolte concordano sull’insufficienza delle cure ricevute: "Nel 1999 ebbi un infarto, mentre già ero detenuto, e mi ricoverarono all’ospedale di Padova. Ora sono abbandonato al mio destino, perché non vedo il cardiologo da oltre un anno". "Ho avuto due infarti in tre mesi e dovrei avere dei controlli periodici, all’ospedale di Padova, ma ad agosto ho rifiutato il ricovero perché non volevo tornare al bunker".

Ma anche chi soffre di malattie epatiche lamenta la mancanza di un’adeguata assistenza: "Sono affetto da epatite B e col tempo sono peggiorato, perché non ho avuto nessuna cura". "Ho l’epatite da parecchi anni e, attualmente, non so nemmeno in quale stadio della malattia mi trovo. Cerco di curarmi facendo attività fisica e con una dieta, ma non ho certezze che sia quella giusta".

Non sembrano passarsela molto meglio quanti hanno problemi ortopedici: "Sono affetto da una scoliosi multipla (diagnosticata quando ero libero), con invalidità riconosciuta del 50%: qui non mi è mai stato fatto alcun controllo". "In carcere ho avuto una frattura (curata male) e, ora, preferisco non farmi operare da detenuto per scarsa fiducia nei sanitari". "Ho continui dolori alla schiena, fuori portavo il busto ortopedico ma qui dentro non posso usarlo". Ma c’è pure chi scrive "Ho saputo di avere l’epatite C, che da libero non avevo", oppure "Soffro di sifilide, finora ho fatto soltanto molti esami e sto più male di prima", ma peggio ancora "Nel maggio dell’anno scorso ho avuto una grave intossicazione, tanto da essere ricoverato al bunker per dieci giorni. Dopo un anno e mezzo ancora non so ancora cosa mi è accaduto, perché i medici dell’istituto non mi hanno mai dato alcuna spiegazione". Per fortuna, dopo tante storie dolorose, c’è chi possiede ancora un po’ d’ironia e spiega: "Come tanti compagni, sono affetto dal male peggiore di cui si possa soffrire: il menefreghismo dei sanitari".

 

Suggerimenti degli intervistati per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria

 

Riportiamo alcuni dei suggerimenti che i detenuti hanno dato attraverso il questionario per migliorare la qualità dell’assistenza, Di fatto colgono e commentano aspetti importanti della realtà carceraria.

Li abbiamo raggruppati in sezioni:

 

Critiche alla qualità e professionalità dell’assistenza

 

I sanitari prescrivono antibiotici e altre pastiglie senza nemmeno visitare i "pazienti" (e, se lo fanno, lo fanno controvoglia).

Fanno i medici in carcere solo per lo stipendio. È importante ricevere assistenza seria e professionale. Non devono esserci differenze etniche o economiche. Dovrebbero essere i medici a chiamare periodicamente i detenuti e non che sia il detenuto a chiamarli, quando si sente male: quanti malati in meno ci sarebbero.

È importante che i sanitari abbiano più professionalità e non si comportino da veterinari. Siamo sempre umani, ma di serie Z.

Non si può trasformare un carcere in ospedale, le sezioni in corsie, soprattutto con l’attuale sovraffollamento.

Non so che consigli dare, ma occorrerebbe una struttura idonea per il ricovero del detenuto-paziente.

Curare e non "fare finta" di curare. Smetterla di curare tutti con la solita pastiglia. Credere al detenuto quando dice di stare male, e seguirlo di più.

Quando il detenuto sta male, deve essere soccorso e seguito subito, non dopo molto tempo: qui per una visita specialistica passano mesi.

Medici di guardia più competenti e pronti ad interventi nelle sezioni. Personale che mantenga un’igiene adeguata nei locali dell’infermeria. Infermieri più preparati ai loro compiti.

Basterebbe un po’ di buonsenso, una scelta più oculata del personale medico, e infine distinguere il vero malato da quello immaginario. L’assistenza sanitaria è fatta di persone, che una ad una sono pagate quindi, se la direzione volesse, potrebbe funzionare molto bene.

Siamo circa 700 detenuti e dipendiamo tutti da un unico dentista, operante per un solo giorno la settimana, credo sia un po’ poco!

Magari, se fossimo tutti ragazzi di vent’anni, ma purtroppo gli anni passano e l’usura di questo vecchio scafandro richiede una manutenzione più accurata.

Meno superficialità e soprattutto più efficienza nei soccorsi, perché ho visto ragazzi morire in cella per la lentezza e la poca organizzazione da parte dei sanitari in casi urgenti.

Ci vuole più professionalità da parte dei medici, che ci trattano come bestie, e tempestività nell’assistenza medica, non intervenire quando si è arrivati al punto di non ritorno.

 

Critiche alla figura del personale medico

 

Bisogna cambiare i medici, perché questi non hanno alcuna sensibilità verso il prossimo, soprattutto se questo "prossimo" è detenuto.

Servono medici più disponibili, che non ti trattino come un pezzente; serve anche un briciolo di coscienza per il dentista.

Bisognerebbe far capire ai medici che le visite sono "corporali", non "verbali", che non si viene in carcere solo per prendere lo stipendio, che non tutti i detenuti sono simulatori e, poi, farli rispondere delle loro colpe quando fanno morire un detenuto.

Il medico penitenziario dovrebbe essere una figura autonoma, autorizzato a decidere al di sopra delle parti (direttore, custodia etc.) e dare maggiori possibilità di accedere in una struttura ospedaliera per quei primari esami che richiedono questi interventi. Perché, quando un medico ti visita, l’agente del piano deve essere presente? Perché il medico stesso non si comporta come un medico di fuori, reclamando il diritto al segreto professionale tra medico e paziente?

Serve maggiore dialogo tra il medico e il paziente, non escogitare subito una soluzione per togliersi il malato di torno somministrandogli dei farmaci che dovrebbero curare un malessere che forse nemmeno esiste.

Più personale qualificato e senza pregiudizi nei confronti dei detenuti.

Alcuni medici sono anche buoni professionisti ma spesso, anche a causa della difficile personalità dei detenuti, sono poco comprensivi, sono meno tolleranti delle guardie stesse.

Bisogna cambiare i medici, perché questi non hanno alcuna sensibilità verso il prossimo, soprattutto se questo prossimo è detenuto.

 

Prevenzione e igiene

 

Servono analisi rapide e corrette, per prevenire le malattie. Molti detenuti si ammalano seriamente perché non hanno potuto curarsi in tempo.

Servono visite mediche più frequenti e più complete, così si potrebbe prevenire qualsiasi malattia. Di solito, ora come ora, descrivi al medico il sintomo e lui ti prescrive una cura, senza nemmeno visitarti.

C’è ignoranza sulle norme igieniche fondamentali. La struttura carceraria è inadatta per una corretta igiene dell’ambiente. La mancanza di frigoriferi non permette la conservazione dei prodotti alimentari, che si trasformano in bombe batteriologiche. Nessuno dei prodotti surgelati arriva a noi senza aver più volte interrotto la catena del freddo.

Per prevenire la depressione e gli esaurimenti psicofisici dovrebbero dare la possibilità di prendere dei ricostituenti o dei complessi vitaminici, anche blandi.

I sanitari dovrebbero sensibilizzare di più i detenuti, affinché facciano meno uso di psicofarmaci e medicinali in genere. Serve anche un maggiore dialogo sui problemi sanitari, più disponibilità da parte dei medici all’ascolto dei problemi di salute di ciascuno.

Curare le persone nel momento del bisogno, per evitare che un piccolo problema divenga di proporzioni disastrose. Diminuire i tempi di attesa per il dentista, così da evitare che una carie da curare divenga un’estrazione.

È scarsa l’igiene e scarso l’interessamento delle autorità ai problemi sanitari.

 

Visite specialistiche esterne

 

Per una visita all’ospedale sono stato chiamato alle ore 7, e ho aspettato nel "blindato" fino alle 12. Il trattamento a cui mi ha sottoposto la scorta è stato vergognoso.

Diminuire i tempi d’attesa per le visite specialistiche ed i ricoveri ospedalieri. I detenuti, spesso, rifiutano i ricoveri nei centri clinici penitenziari a causa del trattamento che in quei posti viene riservato a chi ha la sventura di capitarci.

Il problema sta nei tempi lunghi di attesa, spesso le visite ospedaliere non possono effettuarsi per mancanza del personale penitenziario adibito alle scorte.

 

Rapporti con ASL

 

Servirebbe qualche ispezione "a sorpresa" da parte dei responsabili dell’ASL. I medici del carcere si dimenticano d’essere medici, quando hanno a che fare con i detenuti. Vergogna! Bisogna cambiare tutto il personale sanitario e sostituirlo con personale adeguato, ma senza i soliti clientelismi.

Più controlli sull’igiene, più pulizia nelle sezioni, nella cucina e negli altri locali. Servono controlli da parte dell’ASL, con ammende a chi dovrebbe garantire la pulizia degli ambienti e non lo fa. Migliorare anche la qualità e l’igiene sul cibo.

Bisognerebbe che gli organi di controllo sanitario esterni (N.A.S., A.S.L., etc.), entrassero in carcere per un controllo, il resto verrebbe da solo.

 

Mancanze

 

Serve un’auto ambulanza del carcere, per non rischiare di morire prima che arrivi quella chiamata dall’ospedale.

Manca l’assistenza d’emergenza, soprattutto la notte, per le difficoltà di apertura dei blindati (di notte non ci sono le chiavi).

Al reparto infermeria i medici sono assenti per interi turni di servizio.

 

Proposte

 

Permettere di acquistare aspirine, vitamine e prodotti simili, con un risparmio per chi non ne ha la possibilità.

L’infermeria di un carcere dovrebbe avere i medicinali e le attrezzature idonee a far fronte a tutte le patologie, anche per effettuare T AC e schermografie.

Seguire l’esempio dei regolamenti penitenziari spagnoli e tedeschi, dove le diete sono diverse a seconda del problema di salute di cui si soffre e il personale sanitario specialistico è presente in sezione senza bisogno di istanze, pareri, concessioni, etc.

Poter acquistare (a proprie spese) qualsiasi farmaco che sia necessario, senza dover fare la trafila della richiesta di autorizzazione al direttore. Avere visite mediche specialistiche (a pagamento) da medici esterni di fiducia in tempi ragionevoli, 20 giorni ad esempio. . .

Snellire la burocrazia per i ricoveri urgenti.

Il responsabile sanitario e il giudice di sorveglianza devono sveltire le pratiche per le analisi ospedali ere ed i ricoveri.

La presenza di persone "veramente" competenti potrebbe migliorare sensibilmente l’assistenza sanitaria. Ho potuto verificare, in una ventina di carceri italiane, che la situazione sanitaria è dappertutto molto precaria. Spesso i detenuti sono morti per ritardi nel soccorso o per una burocrazia portata all’eccesso.

Accorciare i tempi d’attesa per essere curati, specialmente per quanto riguarda il dentista.

Serve una maggiore assistenza agli alcolisti, soprattutto nel periodo in cui sono sottoposti all’uso di psicofarmaci.

Evitare la somministrazione di psicofarmaci per sedare le frustrazioni. Più contatti con gli psichiatri e con il personale del Ser.T., che qui a Padova praticamente non esiste, o quasi.

Avere la possibilità di farsi curare da un proprio medico, con il quale magari in libertà già si era instaurato un rapporto. In carcere l’assistenza sanitaria non funziona,

se non per le sole patologie a livello terminale e senza poi offrire cure adeguate, per mancanza di farmaci adeguati.

Bisogna fare più prevenzione, anche con campagne di informazione ed educazione sanitaria.

Questa del questionario è una buona iniziativa, dovrebbe essere riproposta due volte l’anno e non rimanere una iniziativa isolata.

 

Ciò che emerge con maggiore chiarezza dalle richieste riportate è la critica all’atteggiamento poco disponibile dei medici, tanto da essere molte volte confuso con una scarsa professionalità. Di fatto è evidente la non comunicazione fra le parti che sembrano su due opposti versanti, entrambi pronti alla battaglia. A fronte di un impegno a volte gravoso del personale medico, con i detenuti da una parte e con le richieste dell’Amministrazione penitenziaria dall’altra, i risultati sono scadenti, come abbiamo visto dalla ricerca.

Sembra persistere una scarsa comprensione delle problematiche sanitarie all’interno dell’istituzione penitenziaria o, forse, ciò che manca è la possibilità dell’incontro medico-utente oltre il pregiudizio dell’etichetta "detenuto-falso malato", incontro che dovrebbe già di per se avere valenza terapeutica.

Dalla lettura emergono carenze molto importanti quali l’impossibilità di prestare assistenza immediata nelle emergenze, quando cioè le necessità di sicurezza prevalgono sulla tempestività di prestare soccorso, perché, comunque, esiste un iter formale da rispettare prima di poter fare qualcosa!

Altro fatto sconcertante è che la legge sulla riforma sanitaria non è percepita dalla maggioranza dei detenuti. I rapporti con le ASL non sono neppure considerati, se non da pochi detenuti. I soggetti detenuti hanno, inoltre, interiorizzato il fatto di esserlo, si riconoscono come tali e quindi sanno che alcuni diritti sono loro preclusi o ridotti! È ridotta la percezione delle loro possibilità e di come poter usare le risorse disponibili. Loro stessi si sono procurati un handicap: si sono ridotti il potenziale di salute.


 

 

Conclusioni

 

La ricerca internazionale indica in modo univoco che le condizioni di vita in carcere non favoriscono la promozione ed il mantenimento della salute, come abbiamo più volte nel testo ribadito.

Nel progetto del 1977 la Terza Assemblea Mondiale per Sanità ha deliberato che l’obiettivo sociale primario dovrebbe essere la conquista da parte di tutti i cittadini del mondo, entro l’anno 2000, di uno stato di salute che permetta loro di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva (risoluzione WHO 30,43).

Questa risoluzione presenta inoltre il concetto innovativo di "promozione della salute", intesa come "quel processo che permette agli individui e alle comunità di accrescere il controllo sugli elementi determinanti della salute e quindi incrementare la propria salute" (Health Promotion Glossary).

In Europa l’OMS rileva che "il livello di salute dei popoli è di gran lunga inferiore a quello che dovrebbe essere"; si dovranno sostenere interventi tali che l’individuo possa "fare pieno uso delle sue capacità fisiche, mentali ed emotive.

Saranno gli individui stessi a realizzare l’obiettivo della salute per tutti" (ROE 3 of the WHO, 1985), In tale senso quindi i paesi europei, con il documento EUR/RC30/R8 Rev. 2, si pongono l’obiettivo della "salute per tutti". Questa direttiva è "ovviamente" disattesa in quanto una parte di territorio, cioè il carcere, sembra non solo essere nella condizione di non potersi allineare con questi obiettivi ma per di più fattore predisponente a uno stato di indigenza sanitaria.

Infatti, si concorda con Piperno nell’affermare che esiste una contraddizione insanabile tra i messaggi di natura preventiva ufficiali, che, come abbiamo sopra riportato, promuovono l’autonomia di scelte personali di salute, e la situazione del carcere, "tendenzialmente infantilizzante", che disincentiva l’iniziativa personale.

Di fatto l’ottica custodiale è nettamente prevalente su quella trattamentale, come emerge in modo inequivocabile dai dati della ricerca effettuata nella Casa di Reclusione di Padova. La restrizione della libertà impedisce ai soggetti di seguire i propri criteri-guida per tutelare la salute e per mettere a frutto il proprio bagaglio di informazioni e la propria esperienza, Infatti la percezione del rischio, che incide sul nostro comportamento, si basa su aspetti relazionali dell’esperienza passata e presente, sulle caratteristiche dell’ambiente sociale in cui si vive e sulla costruzione sociale dei significati attribuiti alla malattia: è certo che l’istituzione si oppone a questa maturazione, specie quando si tratta di malattie quali AIDS e HIV.

Ma non solo, il carcere limita e depaupera, in proporzione al tempo trascorso in reclusione, le risorse di salute dei soggetti, il loro potenziale di salute, tanto che Buisson parla chiaramente di "sindrome degli esclusi" riferendosi agli ex detenuti che, per analogia, possono essere assimilati a rifugiati o internati. "Come tutti gli individui rimasti isolati risultano più sensibili, fragili, vulnerabili, in tutti i sensi.

Sono persone più emotive, quindi più esposte, che hanno più facilmente le lacrime agli occhi. Le conseguenze anche a livello fisico sono evidenti".

Un quadro inquietante: turbe, disagi, deterioramento psico-fisico, spesso un invecchiamento precoce che stigmatizza, come un marchio indelebile, i volti di quanti vengono dal "mondo delle sbarre. Una riflessione molto lunga meriterebbe il concetto di prevenzione in quanto, come abbiamo già più volte scritto, sembra non essere di pertinenza di nessuno, ma all’art. 20 della L. 833/78, legge che istituisce il Sistema Sanitario Nazionale, un’attenzione particolare è rivolta alla prevenzione dello sviluppo dei fattori nocivi nell’ambito dei luoghi pubblici e degli ambienti di lavoro, Ma perché quindi ancora la necessità di parlare di salute in carcere?

Considerare i diritti umani fondati sulla dignità della persona è un presupposto ineludibile nel trattare seriamente queste problematiche, Il diritto alla salute rappresenta uno dei diritti fondamentali della persona e, abbiamo visto, come esso sia chiaramente sancito da tutte le Carte dei diritti dell’uomo.

Molte volte è travisato il senso dell’esecuzione della pena o della sicurezza tanto da ritenere "giustificabile" che il detenuto possa essere trattato in modo non consono alla dignità umana, privato o "ristretto" nell’applicazione dei diritti fondamentali, Ma difendere i diritti, quale quello della salute, non vuol dire fraintendere il dettato istituzionale del carcere!

Fino ad oggi la medicina penitenziaria ha sopperito, come meglio ha potuto, alle necessità di cura dei detenuti e alla mancanza di attenzione a questa problematica da parte delle politiche sanitarie statali. Le risorse statali non sono incanalate verso la risoluzione di questi problemi, ma convogliate solo nella "sicurezza" sociale, tant’è che l’ennesima riforma sanitaria non ha previsto alcun stanziamento economico. Di fatto la" qualità della pena e della giustizia" sono legati ad un valore economico. o meglio. la qualità della salute del cittadino recluso dipende da bilanci statali più o meno attenti a queste problematiche.

L’esercizio concreto del diritto alla salute deve essere suffragato dall’elaborazione di paradigmi etici promossi da una visione della giustizia personale e sociale, cioè attenta a rispettare le esigenze del singolo e quelle collettive. Parlare di giustizia è cioè mediare le necessità del singolo rispetto a quelle collettive, evitando la subordinazione della collettività all’individuo e prestare attenzione a coloro che sono più marginali in termini di possibilità e diritto di accesso alle risorse.

Il diritto alla salute deve essere considerato come un diritto sociale del cittadino, "ristretto" o temporaneamente libero, in linea con la Costituzione. La regola delle pari opportunità prevede

che "a nessuno dovrebbero essere concessi benefici sociali sulla base di proprietà vantaggiose immeritate ed a nessuna persona dovrebbero essere negati benefici sociali sulla base delle sue proprietà svantaggiose". Si deve superare, per una reale giustizia, ogni forma di discriminazione anche in relazione all’assegnazione delle risorse pubbliche nel campo della salute per non penalizzare ingiustamente singoli soggetti o intere categorie sociali, come, nel nostro caso, i carcerati.

È interessante la definizione data da Sartorius, secondo il quale la salute può essere considerata uno "stato di equilibrio tra l’individuo, il suo se privato ed il mondo che lo circonda".

La tutela della salute in carcere spesso si sovrappone e coincide al concetto di difesa della propria personalità, della propria individualità e integrità in nome proprio del mantenimento di una identità che viene sistematicamente negata e violata. In carcere non esiste la possibilità di un concetto di equilibrio come intende Sartorius se non negando parti di se, se non in stati modificati di coscienza. È come dire che in carcere non ci stanno delle persone ma solo delle vuote forme perché l’attore si è spostato, è altro. L’attore recita sempre una parte: a volte sorride per compiacerti, altre volte ti seduce con tristezze o sguardi, la sua voce ti trasporta sempre solo fino al limite del copione ma "solo gli emarginati lo piangeranno, perché solo degli emarginati è il lutto".

Verso una carta etica per il carcere

 

 

Sono lieto di pubblicare questo testo provvisorio, in appendice al bel lavoro di Laura Baccaro a documentazione di un percorso che é in atto, e il cui esito non si conosce ancora. Devo a Laura Baccaro un notevole impulso all'elaborazione di questa bozza, e le sono per queste in ogni caso grato.

 

Quello che segue non è un testo giuridico, né come modo di esprimersi, né come contenuto. Certo vi si parla di giustizia, ma a un livello più profondo, quello della coscienza da cui procedono eventualmente i comportamenti verificabili e sanzionabili in base alle leggi.

 

Quello che segue non è neanche un testo ufficiale. Non è ovviamente compito di una istituzione laica come il carcere proporre modelli etici. Tuttavia la laicità di un ambito dovrebbe oggi consistere, piuttosto che nella neutralità e nell'indifferenza, nell’attitudine ad ospitare una varietà di motivazioni etiche (tradizionali o no, religiose o no), a suscitare il confronto tra queste e a sollecitare eventuali convergenze su elementi comuni.

 

Questo non è nemmeno un testo filosofico. L'articolo 27 della Costituzione italiana parla di trattamento "umano", ma la nozione di "umanità", come quella di "persona", o di "natura umana", o di "pena" rinviano a grandi dibattiti e offrono molteplici accezioni, a seconda delle filosofie e dei momenti storici; qui si è voluto partire dalla realtà detentiva quale essa è, con le sue esigenze materiali e morali, e con i compiti e le responsabilità che ne emergono, prima ancora dei diritti-doveri giuridici.

 

Questo testo perciò trae dal basso la sua possibile efficacia persuasiva e la sua eventuale autorevolezza. Nel carcere molte norme sono imposte e vanno rispettate. Molti diritti vengono formalmente riconosciuti. Ma si sente la mancanza di riflessione sulle motivazioni morali che debbono indurre al rispetto delle norme e all’attuazione dei diritti. Si sente più in generale la mancanza di un discorso etico: certo non come imposizione dall'alto, ma come capacità di esplicitare, di far circolare, di discutere temi e problemi fondamentali dell’agire umano, prendendo magari posizione rispetto a questi. Ciò ovviamente con speciale attenzione agli argomenti rilevanti per resistenza reclusa, ma nella consapevolezza che si tratta di temi e problemi pressoché comuni ad ogni tipo di esistenza.

 

Il contenuto di questo testo è stato discusso e fondamentalmente condiviso da un notevole numero di persone che per vari motivi e in vari ruoli hanno esperienza della reclusione.

Esso nasce da, e si rivolge a tutti coloro che sono coinvolti nella realtà detentiva, anche se, come si è detto, in realtà i temi toccati riguardano la vita umana come tale. Il testo dovrebbe essere soggetto a regolare revisione. La sua forma - "temi e domande" - mira a favorire un atteggiamento di esame, e anzitutto di auto-esame, nella direzione di una critica costruttiva del proprio presente, a partire dalle condizioni date: cominciando da ora. I primi cinque punti sono di ordine più generale. 


Verso una carta etica

 

  1. Il tempo è un nostro possesso, prezioso e incerto. Nonostante le dolorose restrizioni che la durata della pena e la situazione di custodia impongono, una certa parte del suo uso dipende ancora da noi. È vero questo? Come vivere pienamente Qui e ora il tempo che ci è dato? Come cogliere le opportunità che si offrono?

  2. Vivere è cambiare, possibilmente in meglio. Probabilmente il cambiamento non avviene se alla consapevolezza della giustizia violata, del torto inflitto, non si accompagna la scoperta della possibilità di una nuova relazione con gli altri, compreso chi ha subito il torto. Si può condividere quest'affermazione? Come, quando, con chi si può instaurare questo nuovo rapporto?

  3. Si può suggerire come un buon principio, quello che la giustizia sia resa, il diritto sia rispettato, il dovuto sia dato senza che venga meno quella spontaneità che fa dell'atto dovuto un atto pienamente umano. È vero questo? In quali situazioni questo si può verificare, nella situazione detentiva?

  4. A fondamento di Qualsiasi processo di auto - educazione e di formazione sta la persuasione che la bellezza, esterna e interiore, la conoscenza, la scoperta della legge e la stessa autodisciplina costituiscono un bisogno profondo della persona, piuttosto che un'imposizione. Si può essere d'accordo su quest'asserto? Che cosa può risvegliare, appunto, Questo bisogno? Che cosa può mettere in moto e accompagnare un processo di auto-coltivazione? Come criticare i "falsi assoluti morali"? Come sconfiggere simulazione, ipocrisia, conformismo?

  5. Un principio, molto semplice e probabilmente universale, per regolare i rapporti è: "Fa' agli altri quello che desidereresti fosse fatto a te", e il suo corrispondente negativo. Questo principio tanto più si arricchisce di contenuto quanto più profondo è il contatto con il proprio bisogno, il proprio desiderio, il proprio corpo: solo così è possibile correlarsi al bisogno dell'altro. Che cosa può frapporsi ad ostacolare questo contatto, questa correlazione? Che cosa è una "giusta distanza" fra le persone?

  6. La conoscenza è un potente mezzo di liberazione e di crescita: istruzione, studio, lettura, cultura. Quale conoscenza? Con quali strumenti? Quali possibilità sono offerte dal carcere, a tutti coloro che ci vivono? Come si accolgono le varie proposte educative e culturali? Qual è il livello della biblioteca?

  7. Le religioni sono, storicamente, e anche attualmente, una significativa componente delle culture umane. Si suggerisce di considerare la religiosità (nelle varie sue forme e tradizioni) come un elemento importante, non tuttavia indispensabile; mentre è imprescindibile una maturità spirituale e morale. È corretto? Quale atteggiamento viene proposto e perseguito durante la reclusione?

  8. Il carcere, molto più di altri ambienti, è un luogo in cui sono presenti molte culture. A di là delle difficoltà di comunicazione, si tratta di cogliere questa pluralità come una ricchezza e un'occasione di scambio. Come conoscere, come far convivere le culture e le tradizioni, nonostante gli antagonismi che spesso esistono fra di esse?

  9. Della compiutezza armonica della persona, della sua dignità, fa parte, secondo molto culture, la capacità di silenzio, di contemplazione, di meditazione. Si condivide questo bisogno? Quale spazio può esservi dedicato nel contesto detentivo? Di quanto silenzio vi si può disporre?

  10. Anche l'attività, il lavoro fanno parte di questa compiutezza. Occorre distinguere tra attività e lavoro? Quali opportunità di lavoro si presentano? Quale parte ha il lavoro, nella vita detentiva, quale significato?

  11. La cura del proprio corpo, l'esercizio fisico, il mantenersi in salute, il gioco, l'attenzione al vestire, al cibo sono espressione di stima di se stessi e manifestano il proprio senso di dignità. Come favorire tutto questo nel giusto equilibrio?

  12. La vita degli affetti interviene in profondità nell'essere, nel pensare e nell'agire umano. La saggezza del vivere è scoperta sia nella relazione con un essere umano d'altro sesso, sia attraverso altre variegate e profonde relazioni. E' vero questo? Le restrizioni della libertà sono evidentemente un ostacolo alla piena esplicazione di questi rapporti, che cosa si può fare per favorirne lo sviluppo?

  13. La famiglia d'origine, insieme con il luogo e la cultura d'origine, rappresenta un legame imprescindibile, che va recuperato e coltivato, anche se spesso si tratta di un rapporto difficile e conflittuale. Vero? In che direzione occorre lavorare in tema di legami originari?

 

Dopo numerose discussioni, confronti, modifiche, ho messo da parte questo testo, "Verso una carta etica" per tutta l'estate, e ho ripreso in mano solo ora, per questa circostanza, Ma questo mettere da parte è stato solo per riflettere sul significato complessivo di questa iniziativa.

Non si tratta del dubbio che questo documento proponga mete troppo alte, idealistiche - potrebbe essere altrimenti? Potrei senza mancare di rispetto proporre ai compagni nell'umano qualcosa che non sia ciò che di più alto e nobile sia stato espresso dall'umanità? C'è invece un dubbio un'obiezione grave, che viene da amici di cui ho altissima stima. Alla base c'è un dilemma: cambiare se stessi, o cambiare le strutture? Oppure: è possibile cambiare se stessi, senza cambiare le strutture?

La risposta implicita in tutto questo testo è: si, è possibile, si può, si deve cominciare da se stessi, qui e ora, E' una posizione che non può essere accettata da chi pensa che la critica delle strutture sia preliminare ad ogni lavoro su se stessi, e questa divergenza riposa su una grande diversità di premesse teoriche, o su diverse visioni dell'uomo e del modo, che sarebbe qui troppo lungo esplicitare, Mi basti solo dire, per quanto riguarda la visione qui rappresentata, che dietro al testo c'è un complesso di pensieri, espressi da autori e culture molti diverse: stoicismo, il platonismo, il confucianesimo, il buddhismo, il cristianesimo, l'islam (dovrei naturalmente rendere conto: quale islam, quale cristianesimo ecc: c'è di mezzo molta mia ricerca e insegnamento, in carcere e fuori).

Tutti pensieri convergenti nell'affermazione della priorità e possibilità di "coltivare se stessi" rispetto a "reggere l'impero", per rifarsi alla tradizione cinese. Ovvero, tutti convergenti nella direzione di un'antropologia fiduciosa nelle risorse della persona nel misurarsi con il negativo che è in noi, con la pressione della comunità e della società.

Una convergenza che mi rassicura anche contro il dubbio, prima che obiezione: sei solo tu adire tutti questo? Allora, dinanzi all'obiezione grave, che ci riporta alla questione iniziale: questo riportare l'impegno al soggetto non costituisce forse una sottrazione di forze ad un impegno politico volto a riformare le strutture? Non rischia di essere un servizio reso all'istituzione così che è, invece che un servizio alla sua critica e forse distruzione? Risponderò con quello che mi ha detto un detenuto, assai consapevole e battagliero, rassicurandomi: no, il lavoro su se stessi rende indipendenti dall'istituzione. In questo senso, anche il silenzio, anzi proprio il silenzio può essere sovversivo. Da ultimo. La "carta etica" potrebbe più modestamente chiamarsi "Temi e domande sulla questione etica in carcere". Comunque è essenziale che ogni asserto sia seguito da un "è proprio vero?".