DOVE LA LEGGE BASAGLIA NON È ARRIVATA.

ALCUNE CONSIDERAZIONI IN TEMA DI INFERMITÀ DI MENTE E PERICOLOSITÀ SOCIALE

 

Giuliano Balbi

 

(tratto da Lorenzo Chieffi, Pasquale Giustiniani (a cura), Percorsi tra bioetica e diritto. Alla ricerca di un bilanciamento, Giappichelli 2010)

 

Sommario: 1. Un banco di prova delicato. 2. Un diritto penale fortemente selettivo. 3. Lo specifico dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. 4. Ripensare il sistema.

 

Sono trascorsi oltre trent’anni dalla entrata in vigore, nel nostro Paese, della legge Basaglia, oltre trent’anni dalla scelta radicale di chiudere gli Ospedali psichiatrici civili come conseguenza della acquisita consapevolezza relativa al carattere non elettivo dell’opzione intramuraria – del suo carattere sicuramente desocializzante – quale strumento terapeutico della malattia mentale. Questo mio intervento avrà ad oggetto l’indagine di quella zona oscura del rapporto tra infermità di mente e controllo sociale in cui la legge Basaglia non è arrivata. Sopravvivono nel nostro Paese, infatti, gli Ospedali psichiatrici giudiziari, a chiaro emblema, dunque, del loro orientarsi ben più ad istanze di difesa sociale che ad obiettivi terapeutici. Ma anche qui dagli “obiettivi terapeutici” – dalla loro strumentalità ad ogni possibile reinserimento sociale - non si sarebbe potuto prescindere, costituendo il loro perseguimento l’unica via per consentire agli infermi la indefettibile chance di riacquistare un eventuale, futuro godimento dei loro diritti fondamentali. Il costante conflitto tra le forze vettoriali antitetiche della difesa sociale e della tutela delle garanzie dei singoli consociati viene qui risolto, tuttavia, a totale danno di queste ultime.

 

Un banco di prova delicato

Quello del controllo sociale dell’infermo di mente autore di reato, costituisce, peraltro, un banco di prova tradizionalmente delicato, e difficile, per la tutela delle garanzie primarie, la cui complessità si esalta alla luce di una – doverosa – rilettura delle coordinate costituzionali di riferimento. Da un lato, infatti, il principio di colpevolezza – ex art. 27 Cost. – impone di non punire l’infermo di mente autore di fatti di reato, in quanto non rimproverabile (direi, anzi, che l’art. 32 quasi obbliga lo Stato ad assicurargli un adeguato approccio terapeutico); dall’altro, la necessità di tutelare il corpo sociale da soggetti pericolosi appare un telos ineludibile dell’ordinamento statuale per garantire la pacifica convivenza dei consociati.

La difficilissima composizione dei valori in gioco ha peraltro vissuto, nella storia del diritto, di continue antinomie e soluzioni paradossali: su tutte, quella dell’antico diritto longobardo che, mentre da un lato statuiva l’irresponsabilità del folle, dall’altro disponeva che l’uomo furiosus aut demoniacus potesse essere ucciso da chiunque sine culpa. Al di là dei paradossi, va detto che il nostro sistema penale risolve “brillantemente” il problema – quantomeno rispetto alle coordinate ideologiche di riferimento di uno stato totalitario -, strutturando la risposta ordinamentale sul binomio pena/misura di sicurezza, l’una modulata sulla responsabilità - se posso rimproverarti, ti punisco -, l’altra sulla pericolosità - se non posso punirti, perché tecnicamente non responsabile, posso comunque difendermi da te, in quanto persona pericolosa, applicandoti una misura di sicurezza. Questo schema sembrerebbe – ad una analisi, tuttavia, decisamente superficiale - la conseguenza di una scelta politica di mediazione, se non di sintesi, tra i presupposti caratterizzanti da un lato il pensiero della Scuola classica, modulato sull’idea di un uomo libero e responsabile, e dall’altro di quella positiva, incentrato su di un paradigma strettamente deterministico, e dunque sulla necessità di difendere la società nei confronti dei soggetti – strutturalmente - pericolosi.

Ma a ben vedere, e a prescindere dagli abili artifici dialettici del legislatore del Trenta, il sistema del “doppio binario” entra nel nostro sistema totalmente svincolato da qualsiasi ascendenza teorica, perché non può esservi alcuna mediazione, nessun punto di incontro, tra la libertà del volere e la sua negazione. Il binomio pena/misure di sicurezza, in altre parole, ad altro non corrisponde se non ad una decisa superfetazione tecnicistica delle istanze di difesa sociale espresse da uno stato totalitario.

E che le cose stiano realmente in questi termini, è peraltro messo bene in luce dal fatto che, in realtà, risulta quanto mai complicato distinguere - sui piani teorici delle funzioni, dei presupposti e degli scopi - le misure di sicurezza a carattere custodiale da un complessivo sistema di sanzioni penali di cui hanno finito per costituire null’altro che una peculiare species. Questo, vuoi per il loro insistere in modo egualmente afflittivo sulle libertà fondamentali, vuoi – questa volta sul piano tutto fenomenologico della realtà fattuale - per la loro stessa, frequente identità di luogo: si pensi, ad esempio, alle “case di lavoro” che in altro non consistono, di regola, se non in un autonomo padiglione nell’ambito degli istituti di pena.

Che pena e misura di sicurezza non rispondano affatto, già nelle – pur – celate intenzioni del legislatore codicistico, all’opzione duale, funzionalmente differenziata, responsabilità individuale/pericolosità sociale, è peraltro ulteriormente evidenziato dal fatto che sia la commisurazione della pena (con il suo sguardo rivolto essenzialmente al passato), sia la prognosi di pericolosità (che dovrebbe volgersi essenzialmente al futuro), vengono ricostruite dal legislatore sui medesimi parametri di cui all’art. 133 c.p. La dimensione terapeutica, educativa, rieducativa-trattamentale, che pur dovrebbe caratterizzare le misure di sicurezza finisce troppo spesso, peraltro, per disperdersi in mere istanze di controllo sociale. Nel nostro sistema, insomma, i due binari si incrociano di continuo. E quando due binari si incrociano, i rischi sono evidentemente fuori controllo. Sarebbe tuttavia affrettato evincere da questa premessa la sostanziale identità sistematica – e di effettivo “impatto” - tra pene e misure di sicurezza. L’essere, queste ultime, modulate sul parametro della pericolosità sociale le rende, infatti, peculiarmente insidiose, trattandosi di un parametro decisamente difficile da gestire per un sistema che intenda essere realmente rispettoso delle garanzie primarie dei consociati. Questo, per una pluralità di ragioni:

a) per i gravi limiti di affidabilità scientifica dei giudizi criminogenetici e predittivi, discendenti sia dal carattere spiccatamente soggettivo delle decisioni individuali, sia dalla difficilissima prevedibilità delle stesse al mutare delle condizioni esterne (Kaiser). Seri dubbi esistono, insomma, sul fatto che leggi scientifiche e massime di esperienza consentano – nel caso concreto – di riscontrare in modo davvero attendibile la pericolosità di un soggetto. Basti pensare, a riprova della lontananza del giudizio dalle specificità individuali, e delle insostenibili conseguenze sulla tenuta dello stesso principio di uguaglianza, che la nostra giurisprudenza tende ad individuarne i fattori indizianti anche nella “dimostrata inaffidabilità dei locali servizi di assistenza psichiatrica” (così, ad es., Cass., 19.1.1994);

b) per il carattere intrinsecamente ambiguo del concetto di pericolosità, potenzialmente carico, anche sul piano semantico, di una molteplicità di significati. Di tutti, uno risulta – oggi – particolarmente minaccioso: la sua attitudine «a fungere da comoda etichetta che canalizza un bisogno emotivo di rassicurazione nei confronti di gruppi di persone percepite di volta in volta come socialmente minacciose», e dunque «a veicolare significati di stigmatizzazione» (Pultianò). Si tratta, in altre parole, di un modello che può fornire basi pseudo-scientifiche a quelle forme di discriminazione – sociale, politica, culturale, religiosa, razziale – così frequenti nel crepuscolo delle democrazie;

c) perché la modulazione su di un parametro – la pericolosità sociale - del tutto evanescente, la mancata individuazione del massimo di durata, la compressione della libertà personale svincolata dalla gravità del fatto posto in essere, sottendono evidenti limiti di legittimità. Nella caligine determinata dall’erosione dei principi di legalità, colpevolezza e proporzione, scompaiono le stesse coordinate del diritto penale del fatto.

Volendo trarre una prima conclusione, potremmo dire che la misura di sicurezza a carattere custodiale, in assenza di una identità funzionale realmente autonoma e diversificata, finisce per integrare l’inquietante modello di una pena detentiva a legalità limitata.

 

Un diritto penale fortemente selettivo

Non è un caso che gli istituti strutturati sulla pericolosità sociale – penso soprattutto alle misure di prevenzione e alle misure di sicurezza – si siano storicamente affermati, negli ordinamenti moderni, proprio con la funzione di soddisfare istanze di difesa sociale divenute incompatibili con i nuovi sistemi penali incentrati sulla legalità: nascono, in altre parole, come lo strumento legale funzionale ad aggirare le garanzie fornite da quest’ultima.

Il diritto penale moderno – già per il tramite dell’idea dello scopo, e dunque già con Feuerbach e von Liszt – si configura ab origine, dunque, su di una grave patologia congenita (direi di tipo autoimmunitario) che lo predispone a rinnegare se stesso, la sua matrice culturale egalitaria e liberal-garantista, modulandosi su due livelli: un “piano nobile”, presidiato dalla legalità, oggetto delle attenzioni di una dottrina attenta al fatto e all’invalicabile limite delle garanzie, una “penalistica civile”, dunque, proiettata su di un “diritto penale dei galantuomini”. Ma accanto ad esso, quasi ignorata dalla dottrina, viene poi allestita una “bassa cucina” penale, modulata sulla pericolosità, strumentale a presidiare la tutela dell’ordine, la preservazione delle posizioni politicamente e socialmente dominanti (P. Costa). Non stupirà, a questo punto, ricordare che - ancora alla fine dell’800 - un noto psichiatra individuasse i sintomi della malattia mentale «nella brama, così frequente nelle infime classi della popolazione, di mutar condizione, e così da servi diventar padroni» (Fenoglio). Venendo ai nostri giorni, non ho l’impressione che le cose siano realmente cambiate. Al contrario, l’idea di un diritto penale fortemente differenziato, e socialmente selettivo – neanche più pudicamente nascosto, ma quasi fieramente sdoganato – affiora sempre più di frequente, pronta a sorreggere scelte politico-criminali volte via via a colpire, del tutto a prescindere dalla specificità del fatto realizzato, gruppi percepiti come socialmente – o culturalmente - antagonisti. Le recenti norme in tema di recidiva, ad esempio, e, ancor di più, l’introduzione della circostanza aggravante di cui al n. 11 bis dell’art. 61 c.p., relativa all’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso da un soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale, si inseriscono nel solco di una più complessiva deriva autoritaria del nostro sistema ordinamentale, sorretta una ampia eclissi della coscienza civile. Nel contempo tali scelte, modulandosi su innegabili presunzioni occulte di pericolosità, costituzionalmente illegittime e razionalmente indifendibili, costituiscono l’ulteriore riprova dei limiti intrinseci e degli enormi rischi discendenti dalla presenza di istituti che proprio nella pericolosità sociale ritrovino il loro fondamento e la loro identità funzionale.

 

Lo specifico dell’Ospedale psichiatrico giudiziario

Ritornando allora, in modo più diretto, all’oggetto di questo mio intervento, risultano opportune alcune – pur rapide – osservazioni relative allo specifico dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. La misura si applica all’autore di un fatto di reato, socialmente pericoloso, affetto da infermità – totale o parziale - di mente. Della pericolosità si è detto, ma, al cospetto del sistema penale, anche l’infermità mentale crea seri problemi alla tenuta delle garanzie primarie dell’individuo.

Il punto è che, già dal secondo dopoguerra, le iniziali certezze delle psichiatria nosografica – sorrette dalla convinzione che la patologia mentale in altro non consistesse se non in una lesione organica del sistema nervoso centrale – entrano in una profonda crisi determinata dall’affermarsi del pensiero freudiano, dei suoi postulati radicalmente anti-organicistici. La conseguente deflagrazione della scienza psichiatrica, oggi portatrice di innumerevoli – differenti – modelli ricostruttivi del concetto di patologia mentale, ha profondamente inciso sulla nostra giurisprudenza, incrinando profondamente la tenuta dei principi di certezza e di uguaglianza. Non di rado, a ben vedere, la condanna o il proscioglimento dell’imputato hanno infatti finito per dipendere esclusivamente dalla scuola seguita dal perito psichiatra nominato dal giudice.

Va detto che proprio in ragione di divergenze giurisprudenziali non più sostenibili, della questione sono state investite le Sezioni unite della suprema Corte. Queste – con la nota sentenza 9163 del 25 gennaio 2005 – hanno recepito un modello estremamente ampio di infermità mentale rilevante per il sistema penale, ricomprendendovi anche i disturbi della personalità, per quanto atipici. Che questa decisione abbia davvero contribuito ad innalzare il complessivo standard di garanzie è, quanto meno, discutibile. Quello di disturbo della personalità, infatti, è un paradigma tutt’altro che rigido; basti pensare che il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV edizione) lo definisce come «un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo».

La forte vaghezza del concetto non costituirebbe evidentemente un problema – in termini di tenuta dei diritti fondamentali - se nel nostro sistema l’infermità mentale assolvesse all’unico compito di escludere, o limitare, la responsabilità dell’autore di un fatto di reato che ne fosse affetto, o comunque rappresentasse il presupposto di interventi dallo spiccato carattere terapeutico, riabilitativo, risocializzante. Ma le cose non stanno in questi termini. Non mi sono unito agli entusiastici cori di apprezzamento nei confronti delle Sezioni Unite, della loro sensibile modernità, perché l’idea che un così impalpabile modello di infermità mentale, affiancato dall’altrettanto evanescente parametro della pericolosità sociale, possa determinare l’internamento di una persona, a tempo indeterminato, in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario - struttura che ancora non riesce a emanciparsi da una identità funzionale di ruvido controllo sociale, e da una identità esistenziale di infinita desocializzazione - mi lascia a dir poco sgomento.

Va comunque dato atto alla nostra giurisprudenza, nella sua più autorevole esplicazione, di aver cercato di affrontare un problema delicato – e difficile - con la giusta sensibilità e la dovuta considerazione nei confronti di un panorama scientifico in continuo mutamento. Questo, a fronte di un quadro normativo, sul punto, totalmente immobile. Anche se, nell’incessante teoria di riforme mancate del nostro sistema penale, il più recente tra i progetti di riforma del codice penale - il Progetto Pisapiasi segnala, in effetti, per una certa attenzione al problema. Per i soggetti non imputabili autori di reato veniva, infatti, predisposta una gamma di interventi dal carattere accentuatamente terapeutico, là dove a fondare l’incapacità fosse uno stato patologico (le cd. misure di cura e di controllo); dalle valenze più propriamente ri-socializzanti (lo svolgimento di attività lavorative o di attività in favore della collettività), lì dove l’incapacità avesse affondato le sue radici in proiezioni individuali di profondi disagi esistenziali.

Estremamente interessante, nel contempo, l’idea di modulare la durata di tali interventi sulla necessità di cura intesa in una prospettiva riabilitativa (art. 22, co. 1, lett. f e h), disponendo nel contempo che «la loro durata non possa superare quella della pena che si applicherebbe all’agente imputabile». Scompariva dunque il riferimento alla pericolosità sociale e venivano recuperate istanze perequative, discendenti dal principio di proporzione, indicando una durata massima individuata nella pena che si sarebbe applicata all’agente imputabile.

 Nel darsi atto dello sforzo compiuto in una direzione sicuramente apprezzabile, va tuttavia rilevato come quest’ultima soluzione fosse decisamente incongrua, predisponendo la commisurazione dell’intervento su di un agente virtuale – l’ipotetico agente imputabile che avesse realizzato il fatto nelle medesime condizioni -, non solo delineando un parametro tendenzialmente impossibile (il reato condizionato dall’infermità non di rado non sarebbe neanche stato compiuto dal soggetto capace), ma soprattutto dimenticando che la commisurazione, nella sua irrinunciabile funzione individualizzante, non può che modularsi sulle specificità dell’agente concreto, sulle cui esclusive, effettive esigenze deve essere, evidentemente, strutturata. Più ragionevole, plausibilmente, sarebbe stata l’idea di predisporre un limite massimo dell’intervento individuato in rapporto ai limiti edittali del fatto posto in essere. Peraltro apprezzabilissima, se non doverosa, l’idea di ripensare una disciplina che, in estrema sintesi, prevede oggi l’applicazione – a tempo indeterminato - di misure munite di un elevatissimo tasso di afflittività, nei confronti di soggetti malati, sulla base di parametri totalmente evanescenti. All’interno del sistema si è infatti delineata l’inquietante presenza di una sorta di zona franca, al cui interno non opera nessuno di quei principi che la nostra Costituzione pone a fondamentale presidio della libertà personale, o comunque della legittimità della sua compressione ad opera dell’ordinamento giuridico.

 

Ripensare il sistema

Il sistema, dunque, va radicalmente ripensato. La prevenzione dovrà – unica via per coniugare legittimità ed effettività delle soluzioni - operare essenzialmente mediante la rimozione delle cause socio-ambientali del disagio, attraverso recupero e integrazione, dunque, e non allontanamento, stigmatizzazione ed emarginazione. Il concetto di pericolosità andrebbe nel contempo espunto dal sistema penale, o comunque – dovendo mediare le conclusioni con la realtà politica – vedere limitata la propria rilevanza a peculiari tipologie, gravi, di reati; e i principi di uguaglianza e di determinatezza imporranno la predeterminazione normativa di fattispecie obiettive di pericolosità, solo la cui integrazione legittimerà l’esperimento di un giudizio prognostico individualizzato. Non sfugge che, tra le odierne priorità politico-criminali, l’innalzamento dei diritti delle categorie più deboli non sembra ritrovare spazio peculiare, e che suggerire riforme in nome del diritto penale del fatto, della centralità del principio di uguaglianza, a conti fatti di un’idea solidaristica della legalità, se non della stessa libertà, apparirà ai più un’opzione stantia, superata dall’intolleranza diffusa, dallo strisciante disprezzo per i diversi, dal crescente disinteresse verso gli emarginati. Eppure, fintanto che la nostra Carta costituzionale è ancora in vigore, il complesso della disciplina va ripensato, e riorganizzato, proprio sullo spirito di quei valori, valori sui quali, a ben vedere, si fonda l’essenza stessa della democrazia.