Quei tempi biblici dei processi italiani

di Donatella Stasio | www.ilsole24ore.com/ 22 giugno 2013

Se è mai esistito un tempo in cui bastava minacciare «Le faccio causa» per ottenere il pagamento di un credito o il riconoscimento di un diritto di proprietà, ormai da molti lustri accade che chi ha torto può permettersi di minacciare «Mi faccia causa», sapendo di poter contare su un alleato di ferro, i tempi biblici della giustizia. Ci vorranno, in media, 8 anni per arrivare a una sentenza, il quadruplo del tempo medio registrato nei Paesi dell'Ocse.
Una prospettiva che peraltro non scoraggia la litigiosità degli italiani visto che ogni anno si contano 4 nuovi casi giudiziari per 1000 abitanti, rispetto a una media Ocse del 2,5 (in Giappone uno solo). Così cresce l'arretrato e a cascata la durata dei processi. Il risultato di questo circolo vizioso è non solo una caduta di fiducia verso l'istituzione giustizia e la tutela dei diritti, ma anche un freno alla concorrenza, al mercato del lavoro, allo sviluppo economico. «Il peso di una giustizia civile inefficiente può arrivare all'1% del Pil» ha ricordato Pier Carlo Padoan vice segretario generale dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Che in un Rapporto inedito sotto vari profili mette a confronto dati ragionevolmente comparabili tra i diversi Paesi membri, per misurare le performance dei rispettivi sistemi giudiziari, individuare i fattori di inefficienza, le loro implicazioni su competitività e crescita e trarre così importanti indicazioni di policy. Con un messaggio di fondo: conoscere per deliberare. È cioè indispensabile costruire un sistema di informazioni che permettano di andare alla radice dei problemi per disegnare buone politiche di riforma. E per creare consenso.
Il Rapporto «Judiacial perfomance and its determinant: a cross-country perspective» - nato da una proposta del ministero dell'Economia italiano e realizzato in collaborazione con la Banca d'Italia - è stato presentato ieri a Palazzo Giustiniani alla presenza, tra gli altri, del presidente del Senato Pietro Grasso, del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri e dell'ex guardasigilli Paola Severino, dell'economista di Bankitalia Giuliana Palumbo, del primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, e di Padoan. La novità è nell'espresso riconoscimento dell'importanza delle istituzioni per la crescita economica. Un riconoscimento già contenuto, per la prima volta, nel recente Rapporto Ocse sulla situazione economica dell'Italia e ora ribadito, nella consapevolezza che le inefficienze dei sistemi giudiziari di alcuni Paesi ne limitano la capacità di sviluppo e di crescita.
Di qui la necessità di interventi correttivi. Strategica è la quota del bilancio della giustizia destinata all'informatizzazione (non solo come passaggio dalla carta al web), perché là dove è maggiore, migliori sono i risultati. Quindi: la diffusione di tecniche di gestione dei flussi e l'utilizzo di tecnologie informatiche, per ridurre i tempi e migliorare la produttività. Importanti, sempre per ridurre i tempi, anche la specializzazione dei giudici (possibile solo se i Tribunali non sono di piccole dimensioni) nonché i poteri del capo dell'ufficio giudiziario nell'organizzazione e gestione delle risorse umane. Inoltre, l'implementazione delle politiche pubbliche e la riduzione della corruzione riducono la litigiosità, come la liberalizzazione delle tariffe professionali.
L'Ocse vede «con soddisfazione gli sforzi fatti» dall'Italia, tra cui il recente decreto sull'arretrato, purché le misure «siano attuate in modo pieno e tempestivo – ha osservato Padoan - perché la gente deve vedere che le riforme migliorano il Paese». Cancellieri si è impegnata, augurandosi che dall'Economia arrivino «contributi efficaci al miglioramento della spesa», sebbene dal Rapporto emerga che non vi sono legami tra spesa pubblica per la giustizia, in percentuale del Pil, e performance dei sistemi giudiziari. L'Italia spende quanto la Svizzera (0,2% sul Pil) ma i processi durano il quadruplo. L'eccessiva durata è il nostro tallone d'Achille, insieme a litigiosità e arretrato che, dice Padoan, «ha lo stesso impatto soffocante del debito pubblico». Nel Rapporto non si parla dei 260mila avvocati (ma lo hanno fatto in molti, ieri) solo perché nei vari Paesi le diverse figure professionali non sono del tutto comparabili. Ma è un dato che pesa come un macigno.