Carceri, il ricorso italiano a Strasburgo: «Un'incoerente tattica dilatoria»

Intervista di Sandro Podda a Valerio Spigarelli, presidente UCPI
Liberazione, 11 aprile 2013

"Una ipocrita e incoerente tattica dilatoria". È questo il giudizio senza ambiguità che l'avvocato Valerio Spigarelli, presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi), dà della scelta della decisione dello Stato italiano di ricorrere alla Grande Chambre della Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo per impugnare la sentenza che nel gennaio scorso ha obbligato l'Italia ad adeguare il suo sistema carcerario entro un anno dopo averla condannata per il trattamento inumano e degradante di sette detenuti.
Per stessa ammissione del capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), quella dell'Italia è stata una mossa per "prendere tempo". Cosa ne pensa di questa tattica?
In molti nel governo hanno provato a giustificare questo ricorso come un modo per avere modo di conoscere meglio nei dettagli quali strumenti mettere in campo per risolvere il problema carceri. Mi sembra però poco credibile. Parlerei semmai di una tattica dilatoria, tipica di quegli avvocati che, certi del giudizio, cercano di allungare il più possibile i tempi del processo. Solo che in questo caso è lo Stato ad applicare questo metodo. Il presidente della Repubblica, il ministro della Giustizia, il Dap, hanno coraggiosamente confessato che il rapporto di Strasburgo sull'emergenza carceri è la fotografia della realtà. E allora?
 
Perché rimandare quella che tutti definiscono "un'emergenza"? In quali modi si potrebbe mettere mano a questa emergenza?
Quello che l'Ucpi dice da tempo è che se non si mettono in campo misure emergenziali a fronte di un'emergenza, quando lo si fa? Le uniche possibilità immediate che la nostra Costituzione ci fornisce sono l'indulto e l'amnistia. Sono soluzioni tampone, certamente temporanee, ma che servirebbero intanto ad alleviare una situazione dove sono rinchiuse 75.000 persone in una disponibilità solo virtuale di 40.000 posti. Aggiunga padiglioni chiusi, celle non agibili... Situazioniin cui i detenuti sono spesso costretti a stare sdraiati a letto perché non c'è posto per stare in piedi.
 
Superata l'emergenza come si affronta in maniera strutturale la questione?
In vari modi. A partire dalla depenalizzazione di alcuni reati come la criminalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti che ha portato in carcere migliaia di persone; l'introduzione di strumenti retroattivi sull'irrilevanza del fatto, di pari passo all'irrobustimento dello strumento dell'interdizione dai pubblici uffici, che eviterebbe l'abuso dello strumento della custodia cautelare, uno strumento "limite" che oggi è invece applicato al 40% dei detenuti; l'introduzione del criterio che il presunto innocente va ai domiciliari e non in carcere; rafforzamento dell'uso della detenzione domiciliare; una rivoluzione del sistema penale che ne sposti l'asse carcerocentrico in favore di pene alternative per episodi minori, come la condanna a lavori socialmente utili; e infine recuperare quei concetti cardine degli anni 70 attuando una riforma penitenziaria che metta al centro la rieducazione piuttosto che la punizione.
 
Non sembra un periodo culturalmente molto fertile per il garantismo.
Guardi che non si tratta di semplice garantismo o di essere anime belle. Noi vogliamo evidenziare anche l'aspetto utilitaristico della questione. Un sistema penitenziario più giusto significa, come dimostrato dai fatti, una minore recidiva, una maggiore sicurezza sociale per tutti. Quelli che gridano "galera, galera" ci consegnano in realtà una società sempre più violenta.
 
Eppure, quando si parla di indulto e amnistia, la politica sembra molto spaventata dalle reazioni di un'opinione pubblica mediamente poco attenta o poco disposta a risolvere questa emergenza.
La verità è che l'opinione pubblica viene anche poco o male informata su quello che accade. Certe notizie non passano neanche e altre vengono strumentalizzate. Se sporadicamente si dà notizia dell'impressionante numero di detenuti che si suicidano, quasi mai si racconta di amministratori e guardie penitenziarie che ti tolgono la vita a causa delle condizioni in cui si trovano a operare. Noi avvocati penalisti abbiamo cominciato a visitare le carceri. Bisogna vedere per comprendere cosa accade. E raccontarlo. Le assicuro che tutti quelli che le hanno visitate, al di là del profilo culturale e politico, non hanno potuto far altro che ammettere che si tratta di una condizione intollerabile.
 
Lei ha visitato anche il Cie di Ponte Galeria. Che impressione ne ha ricavato?
Anche peggiore di quella sulle carceri. E quello di Ponte Galeria non è neanche il peggiore tra i centri di identificazione ed espulsione. Si tratta di carceri-non carceri. Senza neanche cioè quei servizi minimi come gli spazi comuni. Esistono celle chiuse su quattro lati, come le gabbie per gli animali.
 
Un'altra battaglia per la quale si batte e che sembra strettamente legata a quello di cui ci parla è quella per l'introduzione del reato di tortura.
L'Italia ha sottoscritto da oltre vent'anni la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti dell'Onu, ma non ha mai inserito il reato di tortura nel suo Codice Penale come invece previsto. Esistono delle resistenze non casuali nel non affrontare quest'altra inadempienza. La tortura si configura quando a una persona in mano allo Stato "sono inflitti dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche". Il primo caso di applicazione che mi viene in mente è naturalmente quello di Bolzaneto per Genova 2001. Caso ben diverso dagli episodi della Diaz, proprio perché in quel momento le persone si trovavano in mano allo Stato.
 
Come mai tanta resistenza a introdurre questo reato?
Pensi che nella scorsa legislatura, la maggior parte delle proposte di legge presentate puntavano a definire la "tortura" un reato comune e non proprio, per depotenziarlo rispetto a chi commette il fatto. Ostacoli a questa introduzione vengono anche da punti oscuri del nostro passato, come ad esempio le verità che emergono sulle torture subite da diversi sospetti brigatisti. Pensiamo alla storia del cosiddetto "De Tormentis".
Alcuni dicono "à la guerre comme à la guerre", intendendo che situazioni particolari, emergenziali, richiedono qualsiasi mezzo per affrontarle. La Convenzione che abbiamo firmato nega invece esplicitamente questa "eccezionalità". Inoltre si sa che sotto tortura le confessioni hanno uno scarsissimo valore di attendibilità. Un altro elemento chiaramente a rischio se fosse introdotto il reato di tortura è il regime del 41 bis che per molti aspetti ha le caratteristiche di un trattamento inumano.