Carcere: la scommessa della rieducazione

Intervista a Valerio Onida

Un’intervista al costituzionalista Valerio Onida sulle funzioni che la pena deve svolgere in base ai principi fondamentali del nostro sistema. Il ruolo della detenzione  e del carcere all’interno di tale sistema, e la compatibilità degli stessi con le finalità primarie della pena.
A cura della redazione di "Dignitas", l'intervista è stata pubblicata in "Aggiornamenti Sociali" (febbraio 2012)

Valerio Onida - Avvocato, professore emerito della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, nasce nel 1936 a Milano da padre sardo e madre siciliana. Nominato giudice costituzionale dal 1996, è presidente della Corte Costituzionale dal 22 settembre 2004 al 30 gennaio 2005. Per tre anni (2007-2009) ha fatto parte del Consiglio di amministrazione di RCS Quotidiani. È membro dell’associazione di cultura politica “Il Mulino” di Bologna, presidente della Fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna, dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e della Scuola superiore della Magistratura. Collabora su temi costituzionali al Sole 24 Ore e come volontario allo “Sportello giuridico” per i detenuti nel carcere di Bollate (MI). In diverse vesti si è occupato della questione penitenziaria.

L’emergenza carceraria in Italia ripropone con urgenza il tema della sua riforma. Ma su quali basi costituzionali si muove una possibile riflessione sui reati e sulle pene?

In materia di reati e di pene la nostra Costituzione pone due fondamentali principi: quello per cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25, c. 2) e con le pene da essa stabilite (legalità e irretroattività delle pene); e quello per cui le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, c. 3: umanità e funzione rieducativa della pena).
Il primo è un principio di garanzia: deve essere assicurata la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie azioni; quindi la pena irrogata non può mai essere più grave di quella che, al momento del fatto, era prevista per legge. Il principio di irretroattività non riguarda invece le leggi che aboliscano reati già previsti o irroghino pene meno severe per gli stessi fatti, o cancellino in tutto o in parte le pene già previste o anche già inflitte: in questi casi la legge più favorevole si applica, salvo eccezioni, anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, per ragioni di eguaglianza.
Il secondo principio dice quali sono le funzioni della pena secondo la Costituzione: la prevenzione dei reati e la risocializzazione di chi li ha commessi. Alla prima risponde, più che la pena in sé, la minaccia della pena (funzione dissuasiva o preventiva), anche se, come è ovvio, l’effettiva inflizione ed esecuzione della pena dopo che il reato è stato commesso è condizione, in linea di massima, perché la minaccia risulti credibile e dunque efficace. La seconda funzione riguarda la risposta al reato commesso nonostante la minaccia della pena: attraverso l’esecuzione della pena si tende a far sì che il reo, il quale è venuto meno a esigenze essenziali della società, si corregga, torni a una condotta a esse conforme e non commetta in futuro altri reati (anche da questo punto di vista, funzione di prevenzione).
Si parla anche di funzione retributiva della pena, e indubbiamente nella “filosofia” della pena opera anche un criterio di proporzionalità: a un fatto considerato più grave corrisponde una pena più grave, e viceversa. In realtà lo scopo essenziale della società non è dare agli autori dei reati ciò che essi “meritano”, bensì difendere efficacemente i beni, individuali e collettivi, che vengono compromessi dai reati. In ogni caso, non parlerei mai di funzione afflittiva della pena, il cui fine non è quello di rendere “male per male” (occhio per occhio): semmai il suo contenuto di fatto afflittivo può essere condizione per la sua efficacia dissuasiva, e ne va tenuto conto per misurare la ragionevolezza o proporzionalità della pena e la sua efficacia in termini di rieducazione.

Lei ha citato l’articolo 27 della Costituzione che esplicita la doppia finalità della pena. Qual è il rapporto attuale tra la promozione del percorso di rieducazione del condannato e la necessità di garanzie sociali cui la pena deve ottemperare?

In verità l’art. 27 parla di finalità rieducativa della pena, mentre insita nel suo carattere non retroattivo è la funzione preventiva: se la pena non era minacciata dalla legge al momento del fatto, non poteva svolgere una funzione preventiva. Rieducazione non è un bel termine, fa pensare a esperienze di regimi autoritari che esercitano violenza sulla libertà morale delle persone per cambiarne l’animo. Ma la Costituzione, che è fondata sul rispetto della persona e della sua dignità, non la intende in questo senso, bensì in quello di percorso di risocializzazione, cioè di messa in opera di tutti gli strumenti di cui si possa disporre per promuovere, sostenere, incoraggiare un cammino, che fa affidamento in definitiva sulla libertà e sulla responsabilità della persona, affinché essa sviluppi una prospettiva di vita e di condotta in armonia con i diritti degli altri e con le esigenze fondamentali o “minime” della società in cui vive.
In che senso una pena può tendere a risocializzare il condannato? In generale, supponendo (plausibilmente) che l’esperienza di applicazione di una “giusta” sanzione (di qualsiasi tipo) per un reato commesso induca l’autore a non ricadere nella violazione della legge penale. Nel caso specifico della pena detentiva, essa può e deve tendere alla rieducazione del condannato nel senso che durante il periodo di privazione della libertà – che è il contenuto sanzionatorio essenziale, anzi unico della detenzione – la persona possa usufruire di occasioni, strumenti, interventi e sostegni idonei a farle avviare e portare possibilmente a compimento quel percorso personale. In questo deve consistere il cosiddetto “trattamento” (altro brutto termine) penitenziario. L’art. 1, c. 6, dell’ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) afferma che nei confronti dei condannati «deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi […] attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». E l’art. 13 stabilisce, al c. 1, che «il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto». In concreto, tutto, nell’organizzazione della vita carceraria, dalle regole dello stare insieme, al lavoro, all’istruzione, alle attività culturali o sportive o di svago, ai contatti con il personale (fra cui gli addetti a seguire i detenuti, che non a caso si chiamano educatori), alle modalità con cui si rendono possibili i rapporti con i familiari e con la “società esterna”, deve essere pensato e realizzato in funzione non solo del mantenimento pur necessario dell’ordine e della disciplina (cui si riferisce il c. 3 dell’art. 1), ma anche del conseguimento della essenziale finalità di risocializzazione.
È vero dunque che la detenzione, se attuata nel modo previsto dalla legge, può avere un effetto positivo in termini di risocializzazione. In qualche caso si può dire perfino che la pena detentiva può essere, per persone che vivono determinate condizioni di disadattamento e di difficoltà personali e sociali, una vera occasione di riscatto e di crescita: si pensi ad esempio ai programmi attuati in carcere o in comunità esterne per persone affette da dipendenze (droga, alcol o altro). Forse queste persone non troverebbero facilmente, fuori e lasciate a se stesse, quelle occasioni che il sistema penitenziario può loro offrire.
È evidente peraltro che, così intesa, la rieducazione non è un risultato garantito, come non lo è mai l’esito di un processo educativo, ma è piuttosto una “scommessa” che la società fa con se stessa su un esito possibile, ma mai sicuro. Non è neanche un risultato pienamente accertabile: chi può dire con certezza che un certo condannato è stato “recuperato” alla società? C’è sempre la variabile o l’incognita della libertà umana. Inoltre è un risultato perseguito individualmente: come dice la legge, il trattamento deve essere mirato in relazione alle particolari caratteristiche e ai bisogni di ogni singolo. Questo è il significato dell’espressione «tendere alla rieducazione» usata nell’art. 27 della Costituzione.

Art. 27 COSTITUZIONE
«La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte».

Rieducazione, risocializzazione, recupero… Ma quale visione del condannato, come persona e come cittadino, ha la nostra Costituzione?

Alla base della teoria e della pratica della finalità rieducativa della pena non sta soltanto la fiducia nella idoneità delle misure e degli strumenti a cui si ricorre, ma l’assunto di fondo secondo il quale il condannato, ogni condannato, può compiere un percorso di risocializzazione, ispirato a una visione personalistica (quella che anima la Costituzione). Un assunto, se vogliamo, ottimistico, che vede in ogni essere umano un individuo nato «eguale in dignità e diritti», «dotato di ragione e di coscienza» e perciò chiamato ad «agire in spirito di fratellanza», come sancito dall’art. 1 della Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948. Un essere che, finché vive, può cambiare se stesso, perché è dotato di libertà. Tanto è vero che se una persona è incapace di intendere e di volere, ed è pericolosa per sé e per gli altri, non le si applica alcuna pena, ma solo misure di cura e di contenimento (misure di sicurezza). L’autore del delitto, di qualsiasi delitto non si identifica e non si riduce mai al delitto che ha commesso. Per questo non esiste il “mostro”, quale che sia la mostruosità dell’azione che si punisce.
Siamo all’opposto di una visione deterministica o che neghi la responsabilità individuale. Non esiste, per la Costituzione, il delinquente nato e condannato a essere tale, e nemmeno il “delinquente per tendenza”, che pure il nostro Codice penale – non a caso del 1930 – ancora contempla, forse influenzato da teorie lombrosiane, come colui che «riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole» (art. 108). Vi possono essere e vi sono diverse cause determinanti del reato, individuali e sociali, come le condizioni di miseria, di degrado o di marginalità nelle quali certe persone si trovano a vivere, e certo combatterle è parte essenziale di una politica criminale adeguata. Ma poi c’è sempre la persona. La rieducazione è soprattutto un percorso individuale, e di esso si deve far carico proprio e specialmente il trattamento carcerario. Per questo gli strumenti e gli elementi di cui esso si avvale – dalla «osservazione scientifica della personalità» (art. 13, c. 2 dell’ordinamento penitenziario), all’assegnazione dei singoli detenuti ai vari istituti, sezioni e gruppi (art. 14), all’istruzione, al lavoro, alla religione (in regime di libertà di fede e di culto: art. 26), alle attività culturali, ricreative, sportive, ai contatti con il mondo esterno e ai rapporti con la famiglia (art. 15) – sono tutti da pensare, da organizzare e da promuovere avendo riguardo, oltre che alla necessità di assicurare l’umanità della pena e il rispetto della dignità della persona (art. 1, c. 1), alla essenziale finalità rieducativa.

Molti ritengono che il carcere sia l’unica risposta possibile all’offesa procurata da un reato penale. Alla luce dei principi che lei ha esposto fin qui, è possibile superare l’equazione pena-carcere?

Noi siamo abituati a pensare alla detenzione come alla pena più tipica e quasi insostituibile, anche perché il carcere assicura il contenimento del condannato e quindi rassicura la società circa la sua efficacia di impedimento – relativo, e comunque limitato alla sua durata – della commissione di nuovi reati. Ma di per sé, specie una volta sgomberato il campo dalle concezioni puramente retributive della pena, non è affatto detto che la privazione della libertà che si realizza con la carcerazione sia sempre la sanzione più adeguata rispetto alla finalità rieducativa. Anzi, in relazione alle condizioni nelle quali spesso in concreto essa si realizza, si osserva come il carcere possa avere di fatto un effetto criminogeno o comunque non scongiurare, dopo la fine della carcerazione e perfino durante la medesima, la commissione di nuovi reati. Ma, anche senza aver riguardo a effetti di questo genere, collegati a difetti del modo in cui si realizza la detenzione, non v’è dubbio che altri tipi di sanzioni – talvolta quelle pecuniarie, ma soprattutto sanzioni “alternative” come possono essere l’obbligo di “lavori socialmente utili” o altre forme attenuate di limitazione della libertà (detenzione domiciliare, libertà vigilata e simili) – possono essere, oltre che più “giuste”, più efficaci della detenzione carceraria. Forse ancora non si è trovato il modo di sostituire largamente ed efficacemente le pene carcerarie con altre forme di pena, ma è indubbio che si dovrebbe lavorare in questa direzione, per un sistema sanzionatorio adeguato a molti se non a tutti i tipi di reati. Le difficoltà, a questo proposito, discendono, oltre che da un atteggiamento culturale, dal fatto che attuare tali diverse forme di pena richiede strumenti e risorse, soprattutto organizzative, di cui il nostro Stato dispone scarsamente.

Da più parti si fa una bandiera del principio della “certezza della pena” e sui media compaiono reazioni scandalizzate ogni qual volta il rilascio di un detenuto avviene prima del termine stabilito dalla sentenza definitiva. Ma come stanno realmente le cose?

L’espressione “certezza della pena” è equivoca. Se c’è una cosa certa, nel nostro ordinamento, è la pena, una volta che essa sia stata inflitta con sentenza definitiva. Il condannato sa il giorno esatto in cui la sua pena finirà. Sa che potrà usufruire di riduzioni (la liberazione anticipata), in termini stabiliti dalle norme e quindi abbastanza certi. Sa che potrà eventualmente fruire di benefici temporanei – i permessi per ragioni di necessità o come premio nel caso di regolare condotta e di assenza di pericolosità –, o di misure alternative, ma a condizioni previste dalla legge e per decisione delle autorità giudiziarie competenti, nell’ambito del programma di trattamento rieducativo Le misure alternative, poi, non comportano l’eliminazione della pena, ma solo diverse modalità per scontarla. E, se si violano le condizioni cui esse sono subordinate, sono revocate e si torna alla detenzione in carcere. È invece del tutto eccezionale che la pena venga cancellata totalmente o parzialmente: può accadere con un’amnistia o un indulto, ma questo richiede una legge ad hoc approvata dalla maggioranza di due terzi del Parlamento. Chi poi si sottragga con la fuga all’esecuzione della pena, sa comunque che il giorno in cui sarà scoperto se la troverà intera ancora da scontare, anche se è passato molto tempo, e perfino se non sapeva di essere stato processato e condannato in contumacia (salvo che in questo caso ha diritto di far riaprire il procedimento).
La pena non è dunque affatto incerta. Quello che può essere incerto è semmai l’esito del processo, nel senso che può passare molto tempo prima che esso si concluda, e il decorso del tempo può far scattare la prescrizione, in forza della quale l’autore del reato che non vi rinunci non può più essere condannato: molti reati vanno in prescrizione. Ma, appunto, incerti sono il processo e la condanna – e qui vanno considerati i tempi e i difetti del nostro processo, nonché la incongruità di una certa disciplina della prescrizione – non la pena, che c’è solo quando la sentenza che la infligge è diventata definitiva. Avremmo invece bisogno di un’altra certezza: quella che le pene vengano sempre scontate nei modi più adeguati a perseguirne la finalità rieducativa.

Allora non è vero che le misure alternative alla detenzione sono troppo blande rispetto alla finalità afflittiva e retributiva della pena.

Certo, le misure alternative sono una forma di esecuzione della pena che ne attenua, di regola, anche il carattere afflittivo. Ma poiché la pena non ha finalità esclusivamente retributiva, ma deve tendere alla rieducazione del condannato, le misure alternative, applicate in attuazione di un percorso rieducativo che gli organi preposti all’esecuzione penale hanno l’obbligo di promuovere, non sono una forma di indulgenza, ma strumenti che devono essere utilizzati per una migliore esecuzione penale e per rendere la pena conforme alla finalità costituzionalmente imposta.
Così è per l’affidamento al servizio sociale fuori dall’istituto penitenziario, accompagnato da specifiche prescrizioni e sostenuto e controllato dagli operatori del servizio sociale. Così è per la deten-zione domiciliare, disposta in caso di pene detentive non lunghe in relazione a specifiche condizioni (donne incinte, minori, genitori di figli piccoli, malati) o più in generale quando risulti idonea a evitare il pericolo di commissione di nuovi reati, e accompagnata da specifiche prescrizioni; per la semilibertà, che consente di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere «per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale» (art. 48 dell’ordinamento penitenziario); per l’ammissione a programmi di lavoro esterno (art. 21).
Il programma di trattamento che viene disposto per ogni condannato si avvale e deve potersi avvalere di questi strumenti per delineare il percorso rieducativo. Disporre di essi rende concretamente possibile, in relazione alle condizioni individuali, il perseguimento delle finalità costituzionali. Nei tempi recenti la nostra legislazione è spesso andata nella direzione di rendere più difficile ricorrere alle misure alternative, spesso in omaggio a una regressiva concezione della pena detentiva come mero contenimento del condannato. Si sono spesso irrigidite le condizioni per la concessione di misure alternative, impedendo alla magistratura di sorveglianza, che è incaricata di disporle, di ricorrervi, senza poter valutare in concreto la loro utilità: non di rado è dovuta intervenire la Corte Costituzionale, proprio in nome del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, a togliere o attenuare taluni vincoli legislativi che si traducevano in irragionevoli impedimenti a concrete valutazioni individualizzate o alla prosecuzione di percorsi rieducativi giù utilmente iniziati. Se a ciò si aggiunge che talvolta la pressione dell’opinione pubblica, favorevole a “buttare via le chiavi”, rischia di indurre i magistrati a precludere il ricorso a misure alternative nel timore di essere additati come responsabili di eventuali nuovi reati o di eccessiva indulgenza, si comprende come la regressiva concezione di cui si è detto abbia fatto e faccia danni sulla strada di una piena attuazione delle finalità costituzionali.

Milano, febbraio 2012