Alessandra Dal Moro

A che punto siamo con la giustizia riparativa

www.generativita.it/ Maggio 2014

Ho un ricordo molto vivido del mio primo giorno di giovane magistrato in tirocinio al Tribunale di Milano, sezione penale: dovevo seguire il Pubblico Ministero cui ero affidata durante un’udienza dibattimentale in cui si celebravano diversi processi.

Fuori dall’aula stava seduto, con le manette, un ragazzo straniero che avrà avuto più o meno la mia età di allora (26 anni), e veniva processato per spaccio di stupefacenti. Ho provato un enorme imbarazzo ed un senso di disagio davvero profondo nel sentire che i nostri ruoli (io nella veste di Pubblico ministero, lui nella veste dell’imputato) ci tenevano ad un’enorme distanza, e mi sono chiesta in ragione di cosa, e se fosse giusto, che io avessi tanto potere su di lui. Ho provato sgomento per questo “potere”.

Il mio affidatario, cui, incerta, comunicai i miei pensieri, mi stupì molto dicendomi: “conserva questo disagio per tutta la tua vita professionale non smettere di farti questa domanda”.

E’ stata, in effetti, una domanda che mi ha accompagnato sempre, e mi ha impedito di sentire come “giusto” il trattamento penale retributivo ed afflittivo; e, quindi, insufficiente e “monco” tutto il sistema procedurale che, disinteressandosi, in effetti, delle persone (sia dell’autore che della vittima del reato) per concentrarsi sul fatto- reato, mira, secondo il suo epilogo fisiologico, ad applicare una pena ( nel vero senso della parola) detentiva che, di “rieducativo”, non ha proprio nulla, se non per circostanze del tutto casuali, rimesse all’intelligenza delle persone con cui, per buona sorte, un detenuto può venire in contatto.

Ha giocato il fatto che fossi molto giovane? O che sentivo con naturalezza, non sospinta da alcuna sovrastruttura ideologica, l’ingiustizia dell’enorme differenza tra il mio percorso di vita e quello che ragionevolmente precedeva quel ragazzo e la sua presenza in Tribunale?

Non saprei; ma forse più delle differenze ha giocato una cosa che mi faceva sentire “uguale” a lui, una cosa che mi permetteva di “riconoscermi” in lui, ovvero che avessi fatto anch’io errori che mi avevano fatto soffrire ed avevano fatto soffrire altri, anche se non erano “reati”.

Credo che il fare “male”, o il rischio di fare “male”, così come la sofferenza che accompagna ogni “rottura” di una relazione umana, tanto in chi la compie quanto in chi la subisce, sia qualcosa che ci rende davvero tutti uguali, e che ci permette di riconoscerci: non solo per il fatto di poter provare lo stesso dolore, per la perdita o per la colpa, ma, ancor di più, per il desiderio di superare o lenire quel dolore, di riscattare la colpa e di placare il senso di vuoto della perdita; di fare in modo, in altre parole, che un “fatto” non “assorba” totalmente il senso della vita e dell’essere, né per chi l’ha commesso né per chi l’ha subito.

Il processo penale, e la condanna alla pena detentiva con cui si conclude, anche se riguarda fatti che sempre coinvolgono, direttamente o indirettamente, la sfera di altre persone (le “persone offese dal reato”) non si fa carico della ricostruzione della relazione umana che la trasgressione ha inciso. Sebbene sia celebrato in nome di uno Stato che ha fatto della persona e della sua “dignità”, della solidarietà sociale e, quindi, della “relazione” il centro di tutto il proprio patto sociale (art. 2 Cost. “ La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo ..” e 3 Cost “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge…) lascia, in effetti, che il principio costituzionale che prevede il diritto di colui che commette reato ad un percorso riabilitativo che ne rispetti la dignità e lo conduca al reinserimento sociale[1], sia gestito solo in sede di esecuzione della pena: che, anche ammesso (ma non concesso) sia un percorso pensato e realizzato in funzione di quell’obbiettivo, arriva comunque dopo tantissimo tempo da quando il reato è stato commesso e da tutti gli sconquassi (non di rado drammatici) che ha prodotto.

Quando ho ricevuto il primo incarico di sostituto procuratore, al “Tribunale per i Minorenni”, mi sono accorta che lì si poteva proporre e applicare un sistema penale più mite, più umano, perché il sistema normativo era congegnato “per” – appunto – il minore, sul presupposto che un minore d’età, una persona in formazione, aveva diritto a che il suo interesse a diventare una persona adulta libera e responsabile fosse, comunque, al centro del percorso di trattamento della sua condotta deviante, dei suoi errori.

Il legislatore del processo minorile aveva capito come fosse essenziale al progredire del percorso di crescita porre la “persona” al centro del “procedimento penale”, e, quindi, fare in modo che il procedimento mirante all’acquisizione di responsabilità per l’errore commesso, potesse essere modulato a seconda della gravità del fatto, del contesto in cui era stato commesso, delle risorse che il ragazzo e la sua famiglia potevano mettere in gioco, della disponibilità / necessità della vittima del reato di ricevere una riposta, una “riparazione” del male subito.

Ho potuto verificare che il procedimento stesso di accertamento del fatto (le indagini, l’istruttoria, il processo) quando non è necessariamente finalizzato ad una condanna al carcere e si avvale dell’apporto di idonee figure di sostegno (educatori, assistenti sociali, supporti medico psicologici ), anziché essere una minaccia da cui difendersi con ogni mezzo (come la menzogna), può diventare un momento di crescita per la persona (e la sua famiglia), può essere, anzi, la più importante occasione che quella persona ha di essere al centro di un interesse reale, e di “invertire la rotta” verso un modo di concepire la propria vita come un valore e la relazione con l’altro come una risorsa.

Ho visto ragazzini “messi alla prova”, in un programma di recupero scolastico o di riparazione indiretta delle conseguenze del reato (attività di volontariato in comunità con altri giovani) che hanno attraversato l’esperienza della trasgressione, a volte dell’arresto, e del processo, come un’“occasione”, in cui hanno potuto fare qualcosa per se stessi, in termini di acquisizione di responsabilità, recupero della relazione con la vittima, recupero della visione di un futuro “aperto”, non oppresso dalle conseguenze indelebili di un errore e dalle stigmate che questo spesso porta con sé e diffonde nell’ambiente familiare, sociale, scolastico, di lavoro.

E’, quindi, per esperienza diretta che sono da tempo convinta che la riposta alla trasgressione – a qualunque trasgressione- dovrebbe essere sempre coerente ai principi espressi dalle regole fondamentali internazionali e nazionali, per le quali le relazioni tra le persone non possono essere basate sull’esclusione e la separazione che il concetto stesso di “pena” implica, ma sul rispetto e il riconoscimento dell’altro, e dovrebbe, quindi, consistere sempre ( anche nel processo che riguarda gli adulti che tanto cammino di esplorazione della vita hanno da compiere anche dopo il 18° anno ) in un percorso riparativo, che per sua stessa natura include la relazione con l’altro ( sia una persona o una collettività) e, quindi, non solo valorizza il ruolo e la sofferenza patita dalla parte offesa, ma spinge l’autore del fatto criminoso a confrontarsi con se stesso, ad assumersi dignitosamente la responsabilità della propria condotta, non in termini di condivisone del “giusto castigo” ma di comprensione delle conseguenze del proprio gesto e di individuazione della direzione in cui può incamminarsi per riscattarlo.

La persona offesa in un sistema di mediazione penale, in un sistema in cui la giustizia ha un senso “riparativo”, è al centro della scena con un ruolo ben diverso da quello di incarnare l’esigenza viscerale di punizione e vendetta che la collettività assume ed esprime nel dare risposte di pena e sofferenza. Entra in gioco con il suo vissuto tramautico, di paura, di dolore, di perdita, con il suo bisogno di capire se l’altro ha capito questo dolore, sente la sua stessa sofferenza, sente la sua vita traversata dallo stesso sconquasso.

E’ accompagnata nel tentativo di incontrare l’autore del reato e le sue ragioni, di capire se ha la forza di avere più pietas che rancore per interrompere il circuito del “male” ed invertirlo con un circuito di “bene”, che, certo, non può essere innescato dalla assurda disumanità della condizione carceraria.

E la Collettività, attraverso la sua Istituzione a ciò deputata, i Tribunali, ha la responsabilità di accogliere questa istanza: respingere la consequenzialità secondo cui l’imposizione della sofferenza, del male, porta al bene (legittimando, così, il male) e fare del circuito che porta all’accertamento di una responsabilità penale un procedimento “per” la persona, vittima e autore del reato.

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Le parole che seguono, tratte da libro di Benedetta Tobagi “Come mi batte forte il tuo cuore”, danno una chiara evidenza di come questa prospettiva sia rispettosa della dignità delle istanze della vittima di un reato, che ha “il bisogno, disperato, di riconoscimento. La possibilità che il carnefice non senta adeguatamente, nel suo cuore ciò che ha fatto è una forma di disconoscimento atroce. Sottrae senso alla vita perché contraddice il sentimento di cos’è un essere umano”.

L’esigenza forte della vittima di essere riparata, insieme all’esigenza forte di recuperare alla società il responsabile del male devono stare alla base di un sistema di giustizia diverso, in cui il percorso riabilitativo comprenda l’incontro con chi ha subito gli effetti del reato e possa sviluppare “capacità di empatia”, efficacemente definito dall’autrice citata il vero “antidoto morale alla reiterazione del crimine”.

[1] art. 27 della Costituzione Italiana : “Le pene e non possono consistere in trattamenti contrari al seno d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”