Rocco Cangelosi
Carceri, il messaggio di Napolitano attende risposta
l'Unità, 30 dicembre 2013

Il Parlamento sembra aver dimenticato il messaggio dell’8 ottobre scorso, con il quale il Capo dello Stato invitava le Camere a adottare le misure appropriate per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e ad agire per corrispondere alla sentenza della Corte di Strasburgo dell’8 gennaio 2013. Quest’ultima, nel condannare l’Italia per il caso Torregiani e di altri sei detenuti, ha affermato tra l’altro che «la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento  cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone» e che «la  situazione constatata nel caso di specie è costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione». La Corte ha infatti emesso «una sentenza pilota», che non si limita a  pronunciare la violazione della Convenzione nel caso specifico, ma identifica un problema strutturale e di sistema, fornendo precise indicazioni al legislatore nazionale sui rimedi necessari, nel rispetto del principio di sussidiarietà. Lo Stato contraente è chiamato dunque a prescegliere rimedi effettivi e adottare un pacchetto di misure efficaci, tali da poter risolvere entro un periodo ristretto di tempo (nel caso di specie per l’Italia entro un anno) il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari, in conformità con la Convenzione dei diritti fondamentali dell’uomo. Il messaggio del Capo dello Stato rivolto alle Camere indicava una serie di misure alternative o complementari, tra le quali l’indulto e l’amnistia - per alcuni reati minori (bagatellari) - nonché la depenalizzazione di alcuni tipi di reati  punibili con modalità diverse dalla carcerazione, lasciando tuttavia il Parlamento libero di decidere sulle misure più appropriate da adottare, purché congrue a soddisfare il dettato della sentenza della Corte di giustizia. Non è escluso pertanto che il presidente Napolitano richiami la questione nel suo messaggio di fine anno, data la gravità della situazione in cui è venuta a trovarsi l’Italia non solo nei confronti della Corte, ma anche sul piano del rispetto dei diritti fondamentali, politicamente sensibile sul piano internazionale. La sentenza della Corte non rappresenta infatti  solamente una pesante condanna nei confronti dell’Italia e del suo sistema penitenziario, ma pone il problema dello status giuridico dei reclusi e quindi dei loro diritti, il cui riconoscimento rimane tuttora nel limbo, affievolendo in tal modo la protezione giuridica di una categoria di individui estremamente debole, sottoposta a un controllo pervasivo e illimitato della loro vita.

LA NORMATIVA INTERNAZIONALE
I diritti riconosciuti ai detenuti dalla normativa internazionale sono innanzi tutto quelli proclamati come  universali e che rappresentano una proiezione della dignità umana e dei diritti riconosciuti alla persona. Basti ricordare al riguardo le «Minimum standard rules for the treatment of prisoners» adottate nel 1955 dal primo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei criminali, le «European standard rules e le European prisoner rules» adottate dal Consiglio di Europa, la Convenzione europea per la prevenzione dei trattamenti disumani e degradanti, o ancora la Convenzione dei diritti dell’uomo, sulla base della quale la Corte europea dei diritti dell’uomo si è dichiarata competente in materia, in virtù di una serie di norme che tutelano i diritti degli individui «uti persona» che possono essere violati nel corso della detenzione in carcere. D’altra parte anche la Corte costituzionale ha affermato che la detenzione in carcere non deve rappresentare in alcun modo la morte civile del detenuto, il quale continua a essere titolare dei diritti «uti persona». Tale principio trova il suo fondamento nel combinato disposto degli articoli 2, 13 e 27 della Costituzione, che riguardano sostanzialmente l’inviolabilità delle libertà individuali, potenzialmente illimitate salvo le restrizioni espressamente previste dalla Costituzione o da tassative previsioni legislative. In linea di principio dunque un individuo sarebbe titolare di un residuo di libertà incomprimibile  dall’amministrazione penitenziaria e dovrebbe pertanto subire la limitazione della sola libertà personale: eventuali ulteriori restrizioni sono legittime solo se strettamente necessarie ad assicurare l’esecuzione della pena detentiva. Esiste comunque un limite invalicabile del potere pubblico, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27 della Costituzione) e di conseguenza «deve essere punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». La carenza di riflessione nella dottrina, nella giurisprudenza e nella politica, nel Paese di Verri e Beccaria, su un problema che riguarda migliaia di persone, può avere effetti devastanti, se la lacuna non viene al più presto colmata. In effetti il protrarsi della situazione avrebbe come effetto quello di relegare, come lentamente sta avvenendo, l’Italia agli ultimi posti nella classifica degli Stati in relazione al rispetto dei diritti umani (nel rapporto della Corte di giustizia l’Italia figura al terzultimo posto seguita solo da Turchia e Russia),ma anche di mettere a repentaglio le basi stesse dello Stato di diritto, in quanto dal disconoscimento dei diritti della persona nei riguardi dei detenuti, il passo è breve per arrivare ad affermare che tali diritti sono riservati solo agli individui «rispettabili», concetto kantiano labile e sfuggente e aperto a ogni interpretazione e arbitrio.