IL PUNTO [Sulla proporzionalità della pena]

Critica del Diritto. Rassegna di dottrina giurisprudenza legislazione e vita giudiziaria

Gennaio-Giugno 2011

di Antonio Bevere

Un  cronista e  un opinionista del Corriere della sera si sono recentemente interessati al processo che ha come protagonista uno studente accusato di furto di un ovetto di cioccolato. L’attenzione di entrambi   è diretta sullo spreco, in termini di risorse dello Stato e di tempi della Giustizia, causato  dal   processo dell’autore di questa piccola trasgressione.
Il racconto di cronaca giudiziaria si conclude con l’arguto auspicio che non sia anche necessaria una   perizia  sui jeans dell’imputato, per verificare la fondatezza dell’accusa del denunciante , secondo cui la refurtiva era stata celata nell’aderente indumento.
L’opinionista elenca una casistica  di giustizia bagatellare e ne denuncia gli effetti nocivi sullo spaventoso arretrato di pendenze giudiziarie.

Arguzia  e denuncia a parte, il fenomeno che più dovrebbe attirare l’ attenzione è quello degli effetti che tanti piccoli processi penali hanno sulla libertà dei componenti della microcriminalità e sul conseguente   sovraffollamento delle carceri.
Non merita di essere trascurato, nel nostro episodio , il trattamento sanzionatorio minimo che può colpire il goloso ladruncolo: qualificato il fatto  come furto  monoaggravato ( per esposizione dell’uovo alla pubblica fede),pur  con tutte le  attenuanti  e con la diminuente del rito alternativo, la pena detentiva  non avrebbe durata inferiore a 15 giorni  di reclusione .
Ove  il giudice non abbia ritenuto di effettuare la conversione della pena detentiva, la precedente recidiva  o la successiva  reiterazione nel periodo di prova della sospensione condizionale , potrebbero determinare lo Stato a chiamare il reo , per la sottrazione di un bene messo in commercio al prezzo di  1 euro, a pagare,per ogni 6,66  centesimi ,   il prezzo di 1 giorno di libertà.
Pur nella sua marginalità , questo episodio merita attenzione  ,perché   consente di  introdurre il tema della reale vigenza  , nella punizione dei delitti contro il patrimonio, dell’idea della retribuzione , ritenuta da alta dottrina principio guida, idea centrale del sistema punitivo dello Stato moderno (Bettiol). E’ bene ricordare che la pena, come categoria storica, è lo specchio più fedele  delle faticose tappe  della civiltà umana, registrandone corsi e ricorsi, progressi e regressioni . Per la sua polivalenza , subisce , a seconda dei tempi,dei regimi, della cultura, manipolazioni e strumentalizzazioni  politiche-ideologiche. Il riconoscimento dell’esigenza che a un male segua un male è accompagnata indissolubilmente dalla accettazione del criterio della proporzionalità ,poiché la pena retributiva  deve essere proporzionata al comportamento precedente. L’idea della proporzione segna il passaggio dalla vendetta  , che è emozione, non controllata dalla ragione , alla pena ,che è atto di ragione e quindi reazione proporzionata. La proporzionalità della pena  viene concepita non nei termini meccanicistici della legge del taglione , ma come concetto che ,legato all’evolversi della coscienza civile , va necessariamente umanizzato , con l’esclusione di ogni fondamento intimidatorio , che , attraverso la grossolana teoria del castigo esemplare, conduce implicitamente  alla conclusione che le pene devono essere il più possibile severe e crudeli . L’esperienza  insegna che solo una pena equa ed umana , non terroristica, può assolvere il compito della prevenzione (Mantovani) .
Questa lunga escursione storico-culturale ci introduce, a sua volta, nel tema  della regola di misura che guida la proporzionalità della pena come corrispettivo nei suindicati reati contro il patrimonio.
Tornando al processo dell’uovo, da una ragionevole prognosi sul suo esito appare una pena che ,in base a una  comparazione,rigidamente commerciale, tra male prodotto e male subìto ,è evidentemente   sproporzionata  ,anche se ricompresa in limiti strettamente legali : la sofferenza di  15 giorni di reclusione non è  eticamente e innanzitutto razionalmente  proporzionale  ,rispetto al male  ascrivibile  al colpevole  (   violazione della legalità e danno al patrimonio). Seguendo quindi la strada maestra della  retribuzione legale,il giudice può giungere a un livello di castigo a cui è razionalmente  impossibile riconoscere i caratteri di una umana reazione ispirata dal senso di giustizia innato nell’uomo- affermata dai più convinti assertori della esclusiva rilevanza della retribuzione-, essendo al contrario questa strada  ricca di punizioni estremamente vicine a una primitiva  vendetta ispirata dalla legge del taglione.

Questa   irrazionale  sproporzione tra male commesso ,in termini monetari,  e male subìto, in termini di libertà, si incontra nella  quotidiana realtà scandita dalla giurisprudenza su marginali  e comunque non gravi reati contro il patrimonio. In questo contesto ,nell’idea della retribuzione sta acquistando un rilievo esasperato  la sua derivazione dall’ordine economico ,la quale  non è sfuggita alla dottrina,secondo cui la retribuzione è animata –sia pure parzialmente – da una certa dose di spirito economico-utilitaristico, nel senso che essa è propria della mentalità commerciale. Va da sé  che esistono alternativi percorsi interpretativi che costituiscono un valida trincea rispetto alle quotidiane riedizioni della legalità del taglione .
Alla procura di Milano,negli anni ’70 , fu organizzato  il dissenso sull’orientamento dei sostituti , che , contestando due aggravanti nel furto d’auto (violenza sullo sportello sul congegno di chiusura  ed esposizione del veicolo alla pubblica fede), oltre che violare la logica(la chiusura è incompatibile con l’affidamento al rispetto per l’altrui bene) e portare a livelli irrazionali  la pena richiesta , ne anticipava l’esecuzione  rendendo obbligatorio l’ordine di cattura  ,in alcuni casi di recidiva. Il procuratore capo , per vincere la resistenza dei dissidenti, decise l’avocazione di  tutti i processi, la cui richiesta di citazione a giudizio contenesse la sola contestazione dell’aggravante della violenza sulle cose.
Un collegio del tribunale , presieduto da Guido Galli, sollevò questione di legittimità costituzionale di questa interpretazione dell’art. 70 dell’ordinamento giudiziario,nei suoi riflessi sull’esercizio dell’azione penale . La corte costituzionale dichiarò infondata la questione, ma comunque i dissidenti  ottennero ,grazie al grande Guido Galli, una bella soddisfazione  come garantisti  di opposizione (per la cronaca, la doppia contestazione si è consolidata  in maniera granitica nella giurisprudenza).
La vigilanza democratica, in altre ipotesi  di punizioni sproporzionate dei colpevoli di reati contro il patrimonio, può essere gestita con  buona efficacia nel  giurisdizione di primo grado, sia pure con maggiore difficoltà da quando il governo capeggiato del democratico Giuliano Amato, nell’ambito del primo pacchetto sicurezza , ha portato il minimo edittale del furto da 15 giorni a 6 mesi di reclusione.    .
Nel grado massimo, dinanzi alla superiore funzione di nomofilachia,  il peso di precedenti maggioritari rende  la difesa della proporzionalità e della razionalità  della pena   molto , ma molto difficile, pur in modeste infrazioni  .
Sono molti i  casi in cui  è protagonista uno straniero messo a dieta dalla miseria, un  alcolista e/o un  tossicodipendente, che si sono  impossessati,  in un centro commerciale, di alimenti, di capi di abbigliamento (scarpe,calzoni, costumi da bagno) del valore complessivo di 100-300 euro .
Se è chiamato a pagare,  per furto monoaggravato di beni del valore di 250 euro,  1 anno e sei mesi di reclusione (547 giorni, ora più ,ora meno),in un puro raffronto retributivo tra male fatto e male subìto, a 0,45 euro del valore della merce corrisponde un giorno di detenzione.
L’attenuante che può apparire di sicura applicazione, secondo un’immediata pulsione di razionalità, è quella di aver cagionato al centro commerciale un  danno patrimoniale di speciale tenuità .
Il richiamo a consolidata  giurisprudenza  impedisce l’ ingresso dell’attenuante nella determinazione del trattamento sanzionatorio, in quanto
a) il primario criterio di misurazione del danno è costituito dall’oggettivo  valore commerciale delle cose sottratte (il criterio soggettivo delle condizioni economiche della persona offesa  è sussidiario );
b) il valore commerciale  è commisurato al valore  delle cose al momento  della consumazione  del reato, cioè al prezzo di vendita  stabilito dal commerciante e  non al prezzo a cui le ha  acquistate ;
c) questo valore di  250 euro  non può essere  considerato di speciale tenuità , in rapporto al livello economico medio degli italiani nell’anno del fatto (non posseggo un apposito prontuario, ma sembra che la  speciale tenuità è quotata a non più di 70/80 euro) .
Questa giurisprudenza ,con l’idea di infliggere un  castigo  condizionato dall’andamento dei prezzi di mercato, inserisce, nella regola di misura prevista dalla legge,  regole di pura derivazione dall’ordine economico, che  rendono del tutto sproporzionato e irrazionale il trattamento sanzionatorio (alias, la sofferenza carceraria).  In questo orientamento, esasperatamente commerciale – in cui appare una sorta di privatizzazione della dosimetria della pena inflitta dallo Stato - rientrano quindi ,come regole  di misura, gli oscillanti e precari  dati provenienti dalla specifica politica dei prezzi, gestita dal commerciante derubato nei confronti del bene prescelto dal reo : la fase del massimo livello del suo prezzo può portare al livello massimo la severità dello Stato , mentre ,  la campagna promozionale, con abbassamento del prezzo in termini monetari ,  può avere speculare effetto   deprimente sul prezzo, in termini di libertà, imposto dal gabelliere in toga .
Anche la generale economia del Paese può avere influenza sull’andamento della situazione carceraria concernente i responsabili di furto .
Durante  la  crisi economica e l’ abbassamento del livello medio del reddito dei  cittadini ,aumenta la severità dello Stato e  si innalza la pena per chi attenta all’altrui proprietà. Nel momento  di rilancio economico e di agiatezza dei cittadini , avviene il contrario. Benessere per tutti !
Nel quadro  di questi  oggettivi  – e paradossali-  criteri di determinazione della pena   nei reati lesivi della proprietà, si profila il rarefarsi della sua proporzionalità e della sua umanità  , in virtù del sopravvento  della mentalità commerciale. Nei piatti della bilancia della giustizia si fronteggiano e si misurano direttamente valore economico e libertà personale , con esito difficilmente favorevole per la seconda.
Né si invochi la piena compatibilità della prevalenza della cultura commerciale con la derivazione dell’idea di pena retributiva dall’ordine economico , nel quale un razionale governo  ben può fissare  un equo ed umano equilibrio di valori .
Il prevalere di questa cultura è tanto più iniquo e paradossale , a fronte della generale e consolidata impunità delle trasgressioni penali, entrate nella prassi di governo dei gestori del potere politico ,centrale e periferico.
Ugualmente  non  appare convincente, per giustificare il livello della pena , il richiamo al fondamento/finalità della prevenzione speciale, sia perché ad essa è riservato il campo non della colpevolezza, ma della pericolosità e quello connesso delle misure di prevenzione, sia perché un suo ruolo decisivo comporta la degradazione della pena a provvedimento di bonifica di scadente materiale umano, a misura di bonifica sociale (Bettiol) .
Una pena che infligga sofferenza al di là di una razionale esigenza punitiva è un male da evitare rigorosamente, anche se potrà incontrare i favori  dei sostenitori della  concezione della pena prevalentemente  utilitaristica, a sfondo preventivo-generale, con la quale si  strumentalizza l’individuo per fini di politica criminale e si privilegia la soddisfazione di bisogni collettivi di sicurezza, amplificati e strumentalizzati a fini elettorali. Nel pronunciare la sentenza di condanna, il giudice, con  una valutazione legale, indipendente da calcoli   della logica di mercato,  dovrebbe  rispettare l’obbligo di evitare una punizione  sproporzionata, fonte di  un giro vizioso di violenza illegittima e violenza legittima.  La decisione del giudice  perde la natura di atto di ragione e ritorna  ad essere espressione di emozionale  vendetta,sia pure compiuta in nome del popolo italiano .
Punire meno, per punire meglio - suggerisce Eligio Resta.
Per recuperare  razionalità punitiva, si può tentare di riavvicinare i giudici alla  finalità educativa, intesa come recupero sociale , come recupero  ,per il cittadino condannato, della capacità  di vivere  nella società nel rispetto della legge penale (Vassalli)
La corte costituzionale ha esplicitato il collegamento tra proporzione e rieducazione della pena : con la sentenza 2 luglio 1990, n. 313), ha affermato il principio secondo cui  la finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost., comma 3), informa tutto il sistema penale e non soltanto la fase dell’esecuzione:questo principio deve  riflettersi sul meccanismo delineato dall’art. 133 c.p., orientando il potere discrezionale del giudice di cognizione. Questi,  nel quantificare la sanzione e commisurandola alla personalità del reo, deve prospettarsi la sua educazione ,il suo recupero sociale da conseguire attraverso un calibrate e razionale restringimento della sua libertà personale. La corte ha ribadito il collegamento con le pronunce  n.343/1993 (dichiarazione di incostituzionalità , relativa alla normativa sul rifiuto del servizio militare) e n. 341/1994 ( dichiarazione di incostituzionalità  della previsione della pena minima di sei mesi di reclusione per il reato di oltraggio, successivamente abrogato).
La Corte  ha quindi prospettato la seguente connessione: la finalità educativa postula che l’autore del reato avverta un trattamento punitivo  non ingiusto e non eccessivo, ma adeguatamente proporzionato al disvalore  del fatto commesso ; altrimenti  si rischia che nel reo prevalga ( e si radicalizzi)  un atteggiamento di ostilità nei confronti dell’ordinamento(Fiandaca) .
Questa prospettata  funzionalizzazione del rapporto di proporzione tra entità della pena e disvalore  del reato allo stesso finalismo  rieducativo cade nel vuoto , in virtù principalmente della scarsa attenzione al primo dei due fattori.
Questo  deficit, nella pratica, dell’impegno del giudice della cognizione nei confronti   della finalità educativa della pena, come può essere superato ?
Posta l’attuale scissione, sul piano conoscitivo ed operativo, della  cognizione e  della esecuzione,  si potrebbe tentare di  superarla  ,prendendo atto che   il riadattamento del soggetto alla vita sociale si dovrebbe  sviluppare in un alveo processuale ,gestito con uniforme impostazione di cultura giuridica e conoscenze empiriche  , senza relegare i titolari della cognizione nella disinformazione degli affetti dalla punizione e della sofferenza da essi sancita.
Il  nuovo  compito  del giudice di cognizione , dovrebbe realizzarsi  attraverso l’esame dei documentati risultati educativi o diseducativi( ho punito troppo o troppo poco ?), ottenuti con i  criteri  sanzionatori in cui crede,per orientare con questo sapere le successive sanzioni.
Questa figura di  giudice che  educa se stesso nella sua funzione di fonte di castigo, in base al vissuto dei detenuti,  appare come  una creatura della fantasia  di  Dostoevskij-che è apparso agli studiosi come  discepolo dei galeotti-   ma non come un protagonista  della nostra organizzazione giudiziaria.
Rimane quindi  il pericolo di un processo di cognizione, quale  cieco motore produttivo di sofferenza sproporzionata , privo di alcun collegamento con la sua finalità educativa.
Una visita nelle carceri ,occasionale , senza un programmato  studio di approfondimento,può costituire  un’ efficace iniziativa ,mirata a rendere tutti i giudici  almeno consapevoli  degli effetti delle loro decisioni , dei loro calcoli, delle loro commisurazioni e a instaurare un parziale collegamento tra fase cognitiva e fase esecutiva ?
Questo interrogativo nasce dall’interessante iniziativa ,che è stata adottata nel luglio scorso dal direttore del carcere e dal presidente dell’ufficio gip di Torino. Questa iniziativa è consistita nell’  organizzare per i giudici di quell’ufficio la possibilità di una esame dei luoghi in cui vivono gli esseri umani per effetto delle loro decisioni: “fare, tappa per tappa, il percorso dei nuovi giunti all’interno del carcere, toccare con mano i problemi e le difficoltà di chi vive e lavora dentro carcere, sentirne gli odori, vedere le camere di sicurezza dove a volte i nuovi giunti dormono uno sull’altro magari in attesa dell’udienza di convalida, ecc.”
C’ è  ottimismo sui risultati di questa visita, da parte dell’autore dell’informazione, secondo cui i gip faranno il  loro lavoro con maggiore consapevolezza.
C’è da augurarselo , anche se in ogni caso si tratterebbe di un risultato scaturente  da un approccio emotivo – fatto di compassione , di solidarietà umana -  che ,non sorretto dal nuovo sapere derivato da una metodica  autosorveglianza, inevitabilmente si spegnerà.
Comunque, nella quotidiana lotta dei giudici per l’  indipendenza dalla cultura dell’emergenza,   dai sui ispiratori  e dai tribuni dell’inselvatichita pubblica opinione , anche le iniziative estemporanee e occasionali sono auspicabili, sia per la loro potenziale diffusione (c’è un’ esperienza anche a Padova), sia per i benefici effetti professionali , comunque realizzabili. Secondo Cechov,  le persone che “per  le loro funzioni vengono a contatto con la sofferenza altrui, per esempio i giudici, i poliziotti, i medici, con l’andar del tempo, in forza dell’abitudine, finiscono col diventare  duri a tal punto che, anche non volendolo, non possono trattare i clienti altrimenti che in modo macchinale”.
Se non è possibile un’autoriforma del giudice  di merito, come  pieno conoscitore, in tutte le fasi del processo,  di chi è e di chi può essere ciascuno  dei suoi più assidui clienti, accontentiamoci delle visite nei luoghi di sofferenza, coinvolgendo anche i supermassimati giudici di legittimità e,specialmente, i cittadini  la cui massima aspirazione è riempire le carceri per ottenere ordine e sicurezza (democratiche, ça va sans dire).